Il tempo dell'usura è l'usura del tempo.
Questo facile chiasmo non intende giustificare il sistema bancario odierno, tramite l'inevitabilità dell'avvenimento degli "scandali,* [ma guai a colui per cui avvengono]" (Luca, XVII, 1), bensì evidenziarne l'avvenimento solo a tempo debito. In altri termini, restando però in ambito furtivo, la responsabilità d'una rapina è certamente del ladro [che ne pagherà il fio], ma si deve ammettere che senza, ad esempio, vuoi l'ostentazione di quanto è rapinabile, vuoi l'obsolescenza del sistema di allarme o vuoi la più o meno tacita complicità della vittima, la rapina non ci sarebbe stata.

* "Impossibile est ut non veniant scandala, vae autem illi per quem veniant". Più pregnante, nel suo sostituire la necessità all'impossibilità, è il "necesse est enim ut veniant scandala, verumtamen vae homini per quem scandalum venit" di Matteo (XVIII, 7).

Dicevamo dell'usura, usura sia come "prestito ad interesse" (in arabo, riba', donde il nostro «ribaldo», garibaldino o no ch'ei sia) che come "logorìo", laddove quest'ultimo termine sta per "involuzione", "regresso", "imbastardimento", "degenerescenza" e, insomma, "fine".* Che la fine di qualcosa rappresenti anche il suo fine, ovvero che il suo termine sia anche il suo scopo, è tema che - Manibus non obstantibus - si affronterà domani. Oggi parleremo solo della menzogna del progresso, essendo pura falsità ogni affermazione moderna relativa - tanto per citarne alcune - allo sviluppo della conoscenza, all'evoluzione dell'uomo [dalla scimmia], all'incremento del benessere, all'aumento della longevità ed alla diffusione universale del binomio «pace e sicurezza».**

* Non è di poco conto rilevare come presso i latini, esenti da influenze bibliche, "mela" e "male" coincidessero in malum. Un pasto completo è infatti definito, sempre in latino, ab ovo usque ad mala (cioè "dall'uovo [sodo] alle mele"), sicché il dire - come diciamo oggi - che «siamo alla frutta» è un modo di dire assai significativo.

** "E quando diranno «pace e sicurezza», allora d'improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta" (san Paolo, Prima lettera ai tessalonicesi, V, 3).

In effetti il disastro dei tempi ultimi è stato prefigurato fin dalla più remota antichità, sia in occidente (ad esempio ne Le opere e i giorni di Esiodo) che in oriente (ad esempio nei Purâna del mitico Vyasa). Quella che Esiodo chiama «età del ferro» e, Vyasa, kali-yuga, non è altro che la nostra era, usurata dal tempo. Pessimismo? No, perché la garanzia attestante che «portae inferi non praevalebunt» lo impedisce. Diverso è il caso di chi, invece di appoggiarsi a questa certezza, o addirittura deridendola, invita all’ottimismo più ingiustificato,* perché, quando si è fatta tabula rasa di ogni principio, non diciamo spirituale, ma anche solo etico, in che cosa si può riporre ottimismo, se non nella cosiddetta «fondamentale bontà della natura umana» (le cui fondamenta, se laiche, sarebbero scimmiesche)?

* Questo atteggiamento tipicamente statunitense, che si vuol sperare non dettato da altre motivazioni, viene attribuito alla talvolta fanciullesca ingenuità dei nativi locali. Poiché si sta diffondendo anche nella vecchia, già cinica e disincantata Europa, si può sospettare che si tratti, anziché di giovanile candore, di demenza senile. Il riferimento testé fatto ad Esiodo può essere illuminante, in merito, perché (si veda, in op. cit., il verso 181) una delle caratteristiche degli uomini di questa età è il “nascere già canuti” (geinòmenoi poliokròtaphoi), ovvero l’avere facoltà mentali ridotte al lumicino, un corpo decrepito e - di conseguenza - una vita brevissima. Illustri critici si sono lanciati nelle più ardite interpretazioni di questo verso, fino ad ipotizzare che “il peso della cultura moderna rende l’uomo d’oggi, in certo modo, più «vecchio» dei suoi predecessori”. Evidentemente nessuno di costoro sa quel che dice, perché sarebbe bastato, per capire il senso del verso in questione, non ritenere fandonie le attestazioni, ad esempio bibliche o vediche, di vite plurisecolari (oppure, come fanno i musulmani, citare il diciassettesimo versetto della sura Al-Muzzamil, che dipinge “già canuti, i bambini nati a ridosso del Giorno del Giudizio”). In questo senso si può definire «privilegiata» la prospettiva religiosa, rispetto a quella atea, perché quest’ultima appare del tutto sprovvista di strumenti conoscitivi atti a capire quel che da qualche secolo si sta delineando all’orizzonte. Per riprendere l’eco di una fortunata contrapposizione, se il laico (bon o malgré) è sempre integrato, il credente è (e non può non essere) sempre apocalittico, stante la sua fede nei testi sacri che annunciano l’arrivo dell’Anticristo, ovvero dell’Impostore (Dajjal, in arabo), arrivo però preludente all'agognato, sia dal cristiano che dal musulmano, ritorno di Cristo.

Infine, circa l’usura finanziaria va detto che, per quanto il suo aspetto classico, in presenza quindi di «moneta sonante», si manifesti nell’esigere la restituzione maggiorata di un prestito antecedente, non ne va trascurata la variante «artigianale» consistente nel limare la moneta stessa. La cosa può sembrare insignificante, eppure si tratta del tipo di usura più spiccio. In arabo, il quasi omofono ribbah significa “limare” o “grattare”. In ebraico, lo stesso termine sta per “quadrare [il cerchio della moneta]”. Che ciò servisse anche a far 'quadrare' i conti potrebbe dimostrarlo il nostro gergale “grattare”, impiegato come sinonimo di «rubare». Potrebbe esser questa una delle ragioni del duplice senso del termine. Tuttavia, anche in presenza di «moneta sonante», cioè di metallo nobile massiccio, l’usura si basa sulla sostituzione dell’oro o dell'argento con un pezzo di carta (cartiglio, assegno, carta-moneta, cambiale, banconota o «pagherò» che la si voglia chiamare). Non a caso Dante ammonisce (Paradiso, XXIV, 83-85), unificando monito e moneta, circa i tre requisiti del denaro tradizionale: lega, peso e possesso effettivo.
In altre parole, il doppio senso del termine «usura» allude ad un processo univoco: svalutazione, surrogazione [del nobile con l’ignobile] e conseguente livellamento [in basso]. In una parola, fine.