Tempo addietro (qui) abbiamo fatto risalire «celibe» a coeli beatus. Etimo improponibile, certo, stante l'indiscussa provenienza del lemma dal greco coite ("letto", "talamo") e lèipo ("manco", "mi privo"). Lemma, sicché, non dilemma. Eppure in pali, ovvero nel sanscrito indoario, il celibato (Brahmacariya) è lo stato più vicino a Dio, quasi che all'uomo/vir (vuoi femmina,* vuoi maschio) competa più l'astinenza (virga, sempre in pali e virâga in sanscrito) che la sensualità (avirati, termine la cui iniziale privativa è abbastanza eloquente).

* Derivano infatti da vir sia virgo che virtus, quest'ultima intesa anche in senso artistico (donde «virtuosismo») ed erboristico-officinale.

Di nuovo, tempo addietro ci siamo soffermati sulla singolare identità, in un latino ignaro di suggestioni bibliche, di «mela» e «male» (malum, in entrambi i casi). Singolare perché, qualora si voglia rendere libera nos a malo con "liberaci dalla mela", si fa una scelta ben difendibile (soprattutto se si vuole alludere alla «big apple» newyorkese). Ma quel che ci preme segnalare, adesso, è il sanscrito mala ("sporcizia", "lordura", "immondizia") ed il suo contrario amala ("pulizia", "purezza"). Come mai tanto accanimento nei confronti della mela (kashmîraphalam),* frutto dall'apparenza innocua come, ad esempio, il lampone (jambûphalam)? Forse perché è divisibile in due metà specularmente uguali, come l'uomo di cui parla Platone? Chissà.

* Sempre in sanscrito, «frutto» è phalam. Ma l'accezione del termine svaria - come in italiano - dal mondano, sia vegetale che umano ("frutto [del lavoro]" o addirittura "fructus [ventris]"), all'oltremondano (karmaphalam), come conseguenza delle proprie azioni. A quest'ultimo riguardo va aggiunto che akarma è propriamente "inattività", ovvero "immobilità" (tema sul quale può vedersi un itinerario parallelo qui) e pertanto rinuncia (intorno alla quale, qui).

Inoltre, tempo addietro abbiamo evidenziato la priorità dell'udito, rispetto agli altri quattro sensi, in conseguenza della sua attribuzione all'etere, il primo dei cinque elementi della cosmologia vedica. In proposito, bisogna ricordare che l'incipit tradizionale dei testi sacri ("in principio") si traduce, in sanscrito, âudau, cioè "odo". Odo, ascolto, sento,* insomma, la sottintesa sillaba primordiale AUM (OM).

* È difficile pensar casuale l'identità di «udire» e «sentire», quasi che quest'ultimo verbo, benché virtualmente riferibile a tutti i sensi, sia di fatto appannaggio esclusivo del primo.

Infine, per tornare al pali (che - come si può leggere nell'omonima pagina della Wikipedia - vuol dire proprio "canone", sicché la dizione «lingua pali» andrebbe modificata in «lingua canonica»), non sembra impossibile collegarvi il pàlin greco. Tale prefisso, infatti, equivalendo in buona parte ai nostri "re-" e "ri-", esprime concetti quali "di nuovo", "un'altra volta" (come in «palinsesto» e «palingenesi») o "al contrario", "all'indietro",* "controcorrente", "in senso inverso" (come in «palinodia» e «palindromo»), tutti peraltro alludenti ad una «restaurazione» o ad un «ripristino» del passato (modalità temporale alla quale fa riferimento anche il prefisso "paleo-").
Concludiamo con due osservazioni, seria la prima, in omaggio a Palingenius (uno degli pseudonimi di R. Guénon), scherzosa la seconda, in burla di Palinuro (palin = "controvento", uro = "orino").


* In questa chiave, palinurus dovrebbe chiamarsi il gambero, anziché l'aragosta. Comunque, frutti di mare o crostacei che siano, il gambero, l'aragosta, il granchio, la granseola, l'astice e lo scampo differiscono tra loro quasi solo per dimensione.