Momentaneamente stanchi di esprimerci in prosa,
torniamo in Versilia. Chi abbia interesse
può trovarci qui o qui.

Caro Marsilio,
nella tua ultima scrivi che la malattia ti sta progressivamente spegnendo ogni passione. Ti sta seccando ogni fonte di piacere (felicità, gioia, diletto, ecc.), sicché.
Capisco il tuo stato d'animo, che peraltro mi sembra congeniale a chi voglia distaccarsi dalle cose terrene (sai bene che sto anch'io con un piede, per fortuna quello della gamba più lunga, nella fossa).
Eppure voglio ricordarti due versi, lì per lì un po' criptici, di Rumi: "Le gioie vere non vanno cercate, ma solo trovate". Non ti sembrano insinuare il sospetto che "trovare", in qualche modo, prescinda da "cercare", ovvero il dubbio che «chi cerca non troverà» e «chi trova non cercò»?
Fuor di metafora, insomma, dovremmo trovare un godimento, senza cercarlo altrove, in tutto ciò che accade, per il solo suo accadere, ogni accadimento esprimendo la Sua volontà.
E ci sarà di conforto il sapere che non saremo mai gravati da un peso eccedente le nostre capacità di sopportazione.
Il Cielo sia con te.

Da Lettere ad un morto, di V. Toffoli (1964).

Mi piacciono le donne.
Mi piacciono se fanno le donne, se cioè sono dominae il cui dominio vige solo in pratica, ovvero de facto, non anche in verbis. Purché stiano al gioco, siano pure regine; abbiano tutto il potere che vogliono, ma subordinato all'autorità - anche solo formale - di un marito, di un padre o di un semplice re degli scacchi.
Potere sostanziale, non formale.
Perché substantia è "colei che sottostà". 


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Nessuno mi leva dalla testa il sospetto che le cose vadano male a partire dal Quattrocento, dal secolo cioè in cui l'hysteron proteron cessò d'essere una figura retorica consistente nell'inversione gerarchica e si attualizzò nella riforma di Martin Lùtero. L'utero (in greco hysteron, "successivo", "sottostante") deve seguire il [deve sottostare al] proteron ("precedente", "sovrastante"). Se si ribella, è l'isteria collettiva.

Le due fasi di ogni esperienza umana, vita compresa, si apprezzano meglio in bicicletta, nel superare un dosso, cioè pedalando in salita e frenando in discesa. La linea retta può servire per una rappresentazione parziale, paragonabile ad un tratto pianeggiante del giro in bicicletta, ma nella sua interezza, dall'inizio alla fine, l'andamento di qualsiasi fenomeno dev'essere descritto con una curva, una cunetta, un montarozzo, un semicerchio per metà crescente e per metà calante.

Come l'inspirazione e l'espirazione, come il levare e il battere, come l'alba e il tramonto, come lo sbocciare e lo sfiorire, così la primavera e l'autunno - nella loro struggente bellezza - ci ricordano la legge inesorabile del divenire perpetuo, prima in crescere e poi in calare.
Pedalando in salita, dicevamo. Pompando, cioè mettendocela tutta, «adelante con juicio», arraffando il più possibile (nei limiti del possibile), inebriandoci di quella spettacolosa materia di cui è fatto l'Universo. E rallentando in discesa, sempre con discrezione, senza forzare, un po' alla volta, ad imitazione delle due fasi, regolari e simmetriche, della respirazione (il che giustifica la grande importanza data al controllo di questa funzione corporale, in tutte le prassi ascetiche della tradizione, dallo yoga all'esicasmo).

Ad esser pedanti, peccare significa strafare. Se l'alba rappresenta il successo (la bellezza, il denaro, l'amore, la salute e tante altre cose desiderabili), il viale del tramonto ne è l'inevitabile rovescio, rovescio non accettare il quale comporta - per esempio - il lifting della vecchia ed il body building del vecchio. A non parlare dell'ennesimo trapianto cardiaco dell'ultranovantenne, talché si direbbe che il rischio di strafare pertenga più al senex che al puer,* più al nonno che al nipote.


* Non a caso la sapienza antica attribuisce a Saturno (vuoi il dio, vuoi il pianeta) nelle quattro età la vecchiaia, nei sette vizii l'avarizia e nei cinque metalli il piombo. In una parola, accumulazione (basti pensare al moderno accumulatore al piombo). In altre parole, tesaurizzazione, mancata accettazione dell'ineluttabilità del declino delle cose, ovvero tentativo disperato di non mollare la presa. E rifiuto di lasciare il posto alle nuove generazioni (strafottendosene dell'inquinamento, del disboscamento e della desertificazione di un pianeta che i nostri nonni avevano ricevuto dai loro bisnonni come nuovo).

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"Se lo scienziato volge lo sguardo dallo stato presente dell’universo all’avvenire, sia pure lontanissimo, si vede costretto a riscontrare, nel macrocosmo come nel microcosmo, l’invecchiare del mondo. Nel corso di miliardi di anni, anche le quantità di nuclei atomici apparentemente inesauribili perdono energia utilizzabile, e la materia si avvicina, per parlare figuratamente, ad un vulcano spento".

È Pio XII (in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze dell'ormai lontano 22 novembre 1951, per il quale si ringrazia il sito Radio Spada) a parlare così, ammonendo noi vecchi decrepiti a non perder tempo nel tentativo di imbalsamarci,
di congelarci o anche solo di farci sostituire i pezzi malfunzionanti.

A proposito di traduzioni evangeliche un po' infelici, tema su cui ci siamo soffermati altrove per la confusione - in italiano ed in latino - tra l'agape e la philia (Giovanni, XXI, 15), altrettanto potrebbe dirsi di un passo 'esplosivo' già in queste due lingue: "Prima che Abramo fosse, Io sono" e "Antequam Abraham fieret, Ego sum" (sempre san Giovanni, VIII, 58).* Esplosivo, abbiamo detto, perché - nonostante l'uso improprio dello stesso verbo «essere», adoperato prima al passato e poi al presente [eterno] - evidenzia l'atemporalità di Gesù. Atemporalità, non precedenza temporale, perché il Salvatore non dice «ero», bensì «sono».

* Come è noto, Gesù, dopo aver affermato che Abramo "si rallegrò nel vedere il Mio giorno", a chi Gli chiedeva se, giovane com'era, avesse visto Abramo, rispose così.
 
Ma ancor più esplosivo è il testo greco (Prin Abraam ghenesthai, Ego eimi = "Prima che Abramo nascesse, Io sono") che, servendosi di due verbi diversi (γίγνομαι ed εἶναι), sancisce la differenza metafisica tra esistere ed Essere: al primo competono un passato (la nascita) ed un futuro (la morte), laddove col secondo non si può parlare che in un eterno presente.
Come evitare l'accostamente col celebre "Io sono l'Essere" (Esodo, III, 14), ovvero "Io sono Colui che è", cioè l'Unico che possa adottare propriamente l'omonimo verbo?


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Ci sono tante cose, nel Libro. "Tante cose da dire, difficili da spiegare perché [siamo] diventati lenti a capire". Lo dice san Paolo, che ci siamo ridotti così (noi, certo, non lui) e che avremmo "di nuovo bisogno che qualcuno [ci] insegni i primi elementi degli oracoli di Dio" (Lettera agli ebrei, V, 12).

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D'altra parte, se «l'uomo d'un sol libro» è temibile, quello che ne ha letti troppi è peggio ancora?
Lasciamo rispondere l'ayatollah Khomeyni, che ebbe a trattare lo stesso argomento in una bella lettera - la cui conoscenza dobbiamo al sito Islamshia - a sua nuora.
"Figlia mia, compi ogni sforzo per deporre i veli, non ammassare libri. Supponiamo che tu abbia trasportato opere filosofiche e gnostiche dalla libreria a casa tua o che tu abbia fatto di te stessa un serbatoio di parole e di termini tecnici, che tiri fuori dal sacco durante riunioni e ricevimenti, soggiogando i presenti con le tue conoscenze; così per uno stratagemma di Satana [...] tu, appesantendo il tuo fardello, potresti essere divenuta - per satanico divertimento - una bambola da salotto. Allora avrai aumentato o diminuito i tuoi veli?
[...] Non ti dico di fuggire scienza, gnosi e filosofia, [...] ti dico solo di fare ogni sforzo perché il tuo movente interno sia divino".


A chi, come lo scrivente, abbia definitivamente rinunciato ad opporsi alle circostanze (considerando ogni accadimento, piacevole e no, allettante o meno,* opera dell'Altissimo), la seguente osservazione dell'emiro Abd al-Qādir - tratta dal suo Kitāb al-Mawāqif - può risultare un po' indigesta.


* Stiamo parlando della resistenza alle tentazioni. In proposito lo scrivente deve confessare la propria debolezza, talché ogni sua vittoria nei confronti d'una qualsiasi lusinga peccaminosa non è dovuta a lui, ma - di nuovo - alle circostanze. È dovuta a Lui, in altri termini.

«Se Dio avesse voluto non Gli avremmo associato alcunché, [...] né avremmo dichiarato illecito alcunché» (Corano, VI, 148). Queste parole rappresentano un caso di enunciazione veritiera utilizzabile con intento menzognero […]. L’aspetto menzognero dell’enunciato consiste nel pensare che tutto quanto Dio vuole per i Suoi servi Lo soddisfaccia e Gli sia gradito. Questo è falso. Se tutto ciò che Dio vuole per i Suoi servi fosse un bene, ne conseguirebbe che l’invio dei Messaggeri e la promulgazione delle Leggi sacre sarebbero inutili. 
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D'altra parte, per dirla con Utpaladeva (nel suo Îśvarapratyabhijñâkârikâ), "è sempre e solo Uno, il Sé che Si manifesta come sé e come altro da sé", ovvero come te e come gli altri, come te e come le cose, come te e come tutto ciò che ti accade. Solo in questo senso non c'è differenza tra la prospettiva vedantina dell'illusorietà del mondo e quella tantrica della realtà del medesimo.
«Un’analoga dottrina - annota Panurge - è espressa in ambito islamico, dove si introduce il concetto di “teofania” (tajallî). Si veda il seguente passo dello shaykh ibn Arabî: l’Esistenza universale è unica nella sua essenza e 'niente è con essa'. A questo proposito si può trovare una sottile indicazione nelle parole della Legge sacra: in questo c’è un avvertimento per colui che possiede un ‘cuore’ o che risveglierà il suo ‘udito’ (Corano, L, 37). [...] Non c’è che Lui, nonostante il fatto che siamo esistenti; però è certo che lo stato contingente (al-hâl) è uno stato contingente, mentre la realtà essenziale (al-‘ayn) è realtà essenziale. Non c’è che un non-manifestato che appare e una manifestazione che scompare; in seguito essa riapparirà, per sparire nuovamente e ancora apparire e sparire. Puoi continuare a volontà. Se segui il Libro non trovi altro che un Unico che è Lui (Huwa). E Huwa non cessa mai di essere nella non-manifestazione (dal Kitâb al-Jalâla wa huwa kalimatu-Llâh)».
Di nostro aggiungiamo solo che il pronome maschile Huwa andrebbe reso meglio con l'Id latino, cioè né Lui, né Lei.* Nec utrum, insomma, neti neti.


* Al riguardo ci viene in mente una famosa uscita di papa Luciani, che volle precisare, suscitando non poco scandalo, quanto Dio sia Madre, oltre che Padre.

Come si viaggia avanti e dietro nello spazio, così può farsi nel tempo. Ron Hubbard - in Ritorno al passato (1950) - affermò addirittura che procedere [alla velocità della luce] nello spazio equivale a retrocedere nel tempo.
Comunque sia, per viaggiare Aldous Huxley utilizzava gli allucinogeni, (Il mondo nuovo, 1932), Edward Bellamy si serviva dell'ipnosi (Uno sguardo dal 2000, 1888), Robert Graves profittava dei sogni (Sette giorni a Nuova Creta, 1949), H.G. Wells inforcava la sua time machine (La macchina del tempo, 1895) e Narciso F. Pelosini esorcizzava l'incubo di addormentarsi nel granducato di Toscana e svegliarsi nel regno d'Italia, scrivendo Maestro Domenico (1871).*
Per viaggiare nel tempo, a Maria Valtorta bastò la malattia.


* Dobbiamo a G. de Turris (Il viaggio nel tempo in letteratura) ed al sito La Runa questi riferimenti bibliografici, l'ultimo dei quali lascia pensare che, se fu un incubo il regno, cosa sarebbe stata la repubblica?

Dal cap. I del suo L'Evangelo come mi è stato rivelato trascriviamo quanto segue. "È Maria, una Maria piccolina che potrebbe dormire fra il cerchio di braccia di un fanciullo, una Maria lunga al massimo quanto un braccio, una testolina di avorio tinto di rosa tenue e dalle labbruzze di carminio, che non piangono già più, ma fanno l'istintivo atto di succhiare, così piccine che non si sa come faranno a prendere un capezzolo, un nasetto minuto fra due gotine tonde e, quando stuzzicandola le fanno aprire gli occhietti, due pezzettini di cielo, due puntini innocenti e azzurri che guardano, e non vedono, fra ciglia sottili e di un biondo quasi roseo, tanto è biondo. Anche i capellucci sulla testolina tonda hanno la velatura roseo-bionda di certi mieli che sono quasi bianchi. Per orecchie, due conchigliette rosee e trasparenti, perfette. E per manine ... cosa sono quelle due cosine che annaspano per l'aria e poi vanno alla bocca? Chiuse come ora, due bocci di rosa borraccina che abbiano fenduto il verde dei sepali e sporgano la loro seta di rosa tenue; aperte come ora, due gioiellini d'avorio appena rosato, di alabastro appena rosato, con cinque pallide granate per unghiette. Come faranno quelle manine ad asciugare tanto pianto? E i piedini? Dove sono? Per ora sono solo uno zampettio nascosto fra i lini. Ma ecco che la parente si siede e la scopre ... I piedini. Lunghi un quattro centimetri, hanno per pianta una conchiglia corallata, per dorso una conchiglia di neve venata d'azzurro, per ditine dei capolavori di scultura lillipuziana, anche loro coronate di piccole scaglie di granata pallida. Ma come si troveranno sandaletti, quando quei piedini di bambola faranno i primi passi, tanto piccini da poter stare su quei piedini? E come faranno quei piedini a fare tanto aspro cammino e sorreggere tanto dolore sotto una croce? Ma ora questo non si sa, e si ride e sorride del suo annaspare e sgambettare, delle belle gambette tornite, delle cosce minute che fanno fossette e braccialetti tanto sono grassottelle, della pancina, una coppa capovolta, del piccolo torace perfetto sotto la cui seta candida si vede il moto del respiro e certo si ode, se, come fa il padre felice ora, vi si appoggia la bocca ad un bacio, battere un cuoricino. Un cuoricino che è il più bello che ha la terra nei secoli dei secoli, l'unico cuore immacolato d'uomo. E la schiena? Ecco che la rivoltano, e si vede la falcatura delle reni e poi le spalle grassottelle e la nuca rosea così forte che, ecco, la testolina si alza sull'arco delle vertebre minute, e pare il capino di un uccello che scruti intorno il mondo nuovo che vede, e ha un gridino di protesta per esser così mostrata, Lei, pura e casta, agli occhi di tanti, Lei che uomo non vedrà mai più nuda, la Vergine santa ed immacolata.
[...] EccoLa di nuovo fra i lini e fra le braccia del padre terreno, cui somiglia. Non ora. Ora è un abbozzo d'uomo. Dico che gli somiglia fatta donna. Della madre non ha nulla. Del padre il colore della pelle e degli occhi, e certo anche dei capelli che, se ora sono bianchi, in gioventù erano certo biondi come lo dicono le sopracciglia; del padre le fattezze, rese più perfette e gentili per esser Lei donna, e quella Donna; del padre il sorriso e lo sguardo e il modo di muoversi e la statura. Pensando a Gesù, come Lo vedo, trovo che Anna ha dato la sua statura al Nipote e il colore più avorio carico della pelle. Mentre Maria non ha quell'imponenza di Anna, una palma alta e flessuosa, ma ha la gentilezza del padre".

Io russai, tu russasti, egli rousseau.

A parità di forze, nessuno si dedica sistematicamente alla violenza (non foss'altro che per timore dell'immancabile vendetta). L'essere umano, come ogni animale, aggredisce solo per necessità e, in tal caso, solo quanto basta. Se questo è vero, il mitico «contratto sociale» col quale - come davanti al notajo - si rinuncia a un po' di libertà individuale in cambio di maggior sicurezza collettiva, non esiste.
Certe cose non si fanno a mente fredda. ma a cuore caldo.
Appare più plausibile (e più naturale) l'aggregarsi spontaneamente ad un capo, un padre (meno spesso una madre), un re o una regina visti - almeno in parte - in un'aura di sacralità: ad una figura simile, carismatico surrogato divino, è più facile obbedire.
In quest'ottica la struttura statale (militare, amministrativa e giudiziaria, cioè la tradizionale seconda casta), traeva la propria legittimazione dall'alto. Il che è l'unico modo di operare secondo giustizia. 

Ciò premesso, quando non c'è parità di forze, ovvero quando la potenza bellica del superiore è incomparabilmente maggiore di quella dell'inferiore (che fino ad ieri poteva contrastare la spada - e magari anche il fucile - col forcone) e quando non c'è legittimazione, ovvero [un minimo di] sacralità, il potente abuserà sistematicamente del debole.* Sistematicamente e senza alcun ritegno, né umano, né animale. Senza pietà, perché, se non sei pius, non puoi aver pietas.

* Potente non è solo il cosiddetto «pezzo grosso», ma ogni componente - stante l'imparità di forze rispetto al singolo utente - l'elefantiaca burocrazia statale. Quando a questo Leviatano viene reciso ogni vincolo celeste, ovvero quando il "pubblico" è dichiaratamente laico, allora sì, meglio il "privato".

Tuttavia la colpa non è solo di chi ha sparso i semi dell'ateismo (homo homini lupus, nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensuuniversalia come flatus vocis, ecc.), ma anche di chi ha coltivato la malerba dell'insubordinazione. Vero è che non abbiamo più la stoffa degli antichi, né noi, né i nostri capi, eppure ...


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Se la cinematografia è - come si pretende - un'espressione artistica aderente ai tempi, perché i film ispirati anche solo in parte alla religione sono quasi inesistenti? Statistiche alla mano, le chiese non sono [ancora] del tutto vuote. Più che un'arte dedita a ritrarre la realtà, l'illuministica invenzione dei fratelli Lumière (nomen omen) sembra una scienza mirata a cambiare la realtà: pedagogia, per l'esattezza.

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S'ama pensare che il buon selvaggio, vivendo in quella res publica ante litteram che è lo stato di natura,* non forzi quest'ultima secondo i di lui desiderata. Ma come la mettiamo con l'anello nel naso, i cerchi al collo, il labbro inferiore dilatato fino all'inverosimile, i lobi auricolari allungati (o anche solo forati), l'amputazione di una mammella, la deformazione dei piedi, l'infibulazione, la circoncisione, la castrazione e così via?
Vien da sospettare che sottoporsi ad un intervento chirurgico, magari per cambiar sesso, non sia poi tanto innaturale. A meno che non si ammetta che ad esser innaturale è proprio l'uomo.**


* Stato felice, ma non anarchico. Se i termini «monarchico» e «teocratico» coincidessero, lo si potrebbe definire in uno di questi due modi.

** La questione, esorbitando dal presente argomento, andrebbe trattata altrove. Però va subito precisato che c'è qualche differenza tra il forzare la natura per scopi mondani oppure oltremondani (scopi d'altronde razionali ambedue).




Riepilogando, si direbbe davvero che Ragione e Natura - intese come razionalità e naturalezza - facciano a pugni. Ciò nonostante, anche la ragione è un dono del buon Dio. Tutt'è usarla bene, perché el sueño de la razón può intendersi sia come atrofìa ("sonno") che come ipertrofìa ("sogno") della ragione stessa: in entrambi i casi, si rischia di russare.

Quando al mai troppo compianto Massimo Troisi chiesero quale fosse la sua donna ideale, questi rispose "la donna d'altri".
Ed aggiunse, accompagnando la frase con la mimica consueta, che la domanda era incompleta, perché gli si sarebbe dovuto chiedere pure quale fosse il marito ideale della sua donna ideale.
Quindi precisò: "A me niente me scoccia quanto avìlla purtà' a 'o cinema, a 'o ristorante, a 'o mare, accà e allà. E nun parlamme 'e nce avì' accattà' fiure, giujelle, vestite, 'stu munno e ll'atr'. Perciò, si chella tène 'nu marito gelùso e 'stu marito gelùso s'a tène cara cara, chella è la mia donna ideale".

Un commento ironico a quanto sopra definirebbe questa scelta il «giusto mezzo» tra il matrimonio (ovvero la comunione dei beni e dei mali) e la rinuncia sia a questi che - conseguentemente - a quelli. 
Tuttavia già il marito è un giusto mezzo tra il gigolò ed il frate. Su ciò è bene ripetere, perché troppo spesso tendiamo a scordarcelo, che «il matrimonio cristiano [è] esplicitamente concepito come male minore, rispetto alla fornicazione, laddove la via preferibile - ma non estendibile a livello di massa - resta l’astinenza».*
E se la perfezione fosse rappresentata da chi si fa un'amante invisibile, donna ideale delle cui gioie godere ed i cui dolori evitare, donna amata che sa come rendersi visibile ed udibile, odorabile ed adorabile, ma non tastabile?

* Ringraziamo Adriano Scianca per avercelo ricordato (dal sito Il primato nazionale).

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A proposito di «giusto mezzo» tra il libertinaggio e l'ascetismo, o tra la lussuria e la castità, val la pena di evidenziare un altro eccesso di noi moderni: l'analgesico, sive l'antidolorifico.
Chi di noi, oggi, sopporterebbe stoicamente un mal di denti senza fare alcunché per alleviarlo?
Eppure c'era gente, in passato, capace non solo di accettare le sofferenze imposte dalle circostanze (ovvero dal buon Dio), ma addirittura in grado di infliggersene volontariamente di nuove. Dal cilicio al digiuno e dal pellegrinaggio alla flagellazione, una penitenza in più era normale. Normale, forse non comune, ma certo non eccezionale.
Questo enigma si deve all'estro di Valentin Druzhinin.


Si dice spesso che la Wikipedia nostrana è la parente povera di quella in lingua inglese. Eppure non è sempre così perché, almeno nel caso della pagina dedicata al Titulus Crucis (consultabile in un'ampia gamma di versioni in altre lingue), compare una perla che non abbiamo trovato altrove.

Ci riferiamo al noto passo giovanneo (XIX, 19) circa l'INRI in tre lingue ed alla scoperta di - afferma la Wikipedia - «un erudito ebreo, Schalom Ben-Chorin, [il quale] avanzò l'ipotesi che la scritta ebraica fosse Yeshua haNotzri wuMelech haYehudim, cioè letteralmente "Gesù il Nazareno e il Re dei Giudei". In tal caso le iniziali delle quattro parole corrisponderebbero esattamente al tetragramma biblico, il nome impronunciabile di Dio, motivando con maggior forza le proteste degli ebrei».
In altri termini, la versione ebraica sarebbe stata ישוע הנוצרי ומלך היהודים e non ישוע הנוצרי מלך היהודים; cioè, da destra verso sinistra, iod sin waw - waw alef he - waw mem lamed kaf (e non mem lamed kaf) - he iod he waw daleth iod mem. In effetti, nelle lingue semitiche,* ogni attributo successivo al primo va preceduto dalla congiunzione 'e' (wu - o we - in ebraico, wa in arabo) e quest'ultima, legata all'articolo, si trasforma in un prefisso del nome.

* Ma anche chez nous, come nel caso di certi alberghi di lusso (Grand Hotel et de Milan, Grand Hotel et de Palmes, ecc.).

L'acrostico pertanto sarebbe YHWH, che nulla vieta di scrivere IHWH (la lettera yod potendosi rendere sia con la Y che con la I o con la J), e non - come si sostiene da più parti - IHMH. Anche così, però (se è vero che «ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso», ma rovesciato, visto che «gli ultimi [quaggiù] saranno i primi [lassù]»), la rivelazione di Schalom Ben-Chorin, al secolo Fritz Rosenthal, non perde forza: il riflesso terreno di IHWH, rovesciato dallo specchio lunare, è proprio IHMH.

Tornando alla Wikipedia, tra le versioni europee solo la svedese ("Yeshua' HaNotsri U'Melech HaYehudim") e l'olandese ("Jeshua Hanozri Wumelech Hajehudim") citano la waw prima di melek, senza peraltro far menzione alcuna del miracoloso acrostico derivantene. Le altre, comprese l'inglese e la spagnola (che neppure presentano il testo ebraico),* o tacciono o si limitano al solo melek.* Perché? E perché nessuno - a quanto pare - se n'è mai accorto, in duemila anni? E perché anche adesso, dopo quasi mezzo secolo, se ne parla così poco e magari si attribuisce la scoperta ad un comico (Henri Tisot, nel suo Eva, la donna, con prefazione di Brigitte Bardot)?
E perché, infine, ad onta del "fior di ebraizzanti, che pur c'erano - commenta sarcastico B. d'Ausser Berrau - nel clero di una volta", la rivelazione è stata concessa ad un ebreo? Ebreo di schietta osservanza giudaica, per sovrammercato, sebbene impegnato nel dialogo interreligioso.
L'umorismo divino non cesserà mai di sbalordire il povero scrivente.

* In compenso la tedesca e la francese citano Maria Luisa Rigato, alla quale si deve l'interpretazione di ישו נצר מ מ (stavolta in aramaico) come Jeschu nazara malk kem, ovvero "Gesù nazareno vostro re". Al riguardo, siamo sicuri che il quod scripsi, scripsi di Pilato (Gv. XIX, 22) non fosse a sua volta ironico?


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A proposito della primogenitura dell'invenzione, ancora B. d'Ausser Berrau osserva che "Eve, la femme, éd. du Cerf, è del 2007, mentre Bruder Jesus. Der Nazarener in jüdischer Sicht, München 1967, ha avuto una seconda edizione nel 2005. Tenderei però a non credere a un plagio del Tisot, anche perché non mi risulta che Bruder Jesus sia mai stato tradotto in francese e fortemente dubito che il Nostro conoscesse la lingua. Resta la possibilità - nemmeno tanto remota - che, nell’andare a lezione di ebraico da un rabbino, sia in qualche modo giunto ad apprendere questa singolarità, magari nemmeno sapendo che e da chi fosse stata già riscontrata".
A chi scrive, la cosa fa pensare a Fatima e Lourdes. 

Credo che, se non i nostri nipoti, i nostri pronipoti ritroveranno il sottile piacere del baciamano. Quello autentico, intendo, umido e tumido, non quello che tantalizza (o tantaleggia, come più aggrada) il gentiluomo.


Prima che ciò accada, tuttavia, bisognerà sciropparsi l'abominio della desolazione.


Per quanto la voluttà classificatoria sia insopprimibile, in noi umani, bisogna rassegnarsi. Uno dei piaceri del buon Dio essendo quello di mischiare le carte [del bianco e del nero, del bene e del male, dell'alto e del basso, ecc.], catalogare qualcosa è impossibile, oltre che quasi inutile. Quasi, ma non completamente, perchè dividere - ad esempio - le arti a) tra visive ed acustiche, b) tra susseguentesi nello spazio (cioè la cui fruizione esige la stasi dell'opera ed il moto dello spettatore, come in un museo) o nel tempo (cioè la cui fruizione esige la stasi dello spettatore ed il moto dell'opera, come in una sala cinematografica), c) tra quelle la cui opera è prodotta una volta per tutte (scultura, fotografia, pittura, letteratura, ecc.) o va riprodotta ogni volta (danza, canto, teatro, ecc.) può servire a veder le cose da un altro punto di vista.
Punto di vista pur sempre parziale, però, dandosi il caso di arti - per tornare alla prima suddivisione - sia visive che acustiche. Un concerto rock, per esempio, non è etichettabile che come audiovisivo.


Del resto il bello dei cinque colori, come dei cinque sensi, è nel mescolarli. Così il mio colore favorito, il verde, nasce dall'unione del giallo e del blu. Così l'udito e la vista collaborano, nel godimento di arti quali il cinema ed il teatro. E così, tornando alle suddivisioni precedenti, l'opera d'arte creata una tantum (Le quattro stagioni, I concerti brandeburghesi, Le nove sinfonie, ecc.) necessita di una esecuzione sempre nuova e l'immoblità dello spettatore, opposta alla mobilità dell'attore (come nel caso della danza), può risolversi nell'immobilità della poltrona e dello schermo dove il primo, su quella, esercita la mobilità degli occhi e, il secondo, su questo, degli arti.* 
Un'ulteriore, interessante ripartizione prevede arti esercitabili grazie al solo uso del proprio corpo ed arti la cui attuazione richiede una - per così dire - appendice o protesi di quest'ultimo (flauto, pennello, computer e così via). Interessante, dicevamo, sia perché non permette sconfinamenti tra un tipo d'arte e l'altro, sia perché sembra che il gentil sesso primeggi soprattutto in arti quali la danza, la poesia,** la ginnastica, il canto, insomma in tutte quelle arti che non abbisognano di strumenti meccanici. Col che torniamo a dire quanto accennammo qui, cioè che un ben fatto corpo femminile (che sia di Venere - dea, pianeta e terzo cielo - o delle muse) è già in sé un'opera d'arte.***

* Curiosa omofonia, quella tra le arti e gli arti, quasi che senza questi non si diano quelle.

** Poesia e scrittura non vanno necessariamente di pari passo, almeno per chi crede che la trasmissione orale duri più a lungo di quella scritta (se non altro perché si trasmette solo ciò che val la pena trasmettere).

*** Circa le muse, offese dall'iniziale minuscola, forse mette conto precisare che, finché si tratta di due persone (come i Dioscuri) o di tre (come le Grazie), la maiuscola ci vuole. Poi, basta (sette nani, nove muse, dodici dei, ecc.).

Ancora sulla voluttà classificatoria e sulla relativa difficoltà di incasellamento delle arti, dovremmo chiederci sotto quale voce catalogare creazioni come - ad esempio - il ricamo, l'arazzo, l'oreficeria, la grafica digitale e la spazzatura della sabbia davanti ad un tempio zen. 
E la spada del samurai non interpreta forse la stessa arte del volo dell'aquila, del balzo della tigre e del volteggiare della foglia

Per finire, se è vero che anche l'attività più umile, se fatta a regola d'arte, è arte, illanguidisce perfino la distinzione tra l'art pour l'art e l'art pour l'argent. Basti pensare a quanti ritratti (come quello - vedi - della signora Panciatichi, davanti al quale si prostra chi scrive) sono stati dipinti su commissione. E pure in assenza di pagamenti in denaro è difficile parlare di arte fine a se stessa, visto che un tributo d'ammirazione può appagare altrettanto.


Una delle differenze tra il maschio e la femmina della nostra specie, lumeggiata poc'anzi parlando di interpretazioni artistiche alla cui messa in opera è sufficiente il corpo [dell'artista], senza altri accessorii, è l'atteggiamento verso il medesimo.
Si direbbe che solo le donne abbiano la consapevolezza di albergare in (o di albergare tout court, secondo il rispettivo punto di vista) un tempio mobile. Che poi tale consapevolezza si traduca in umiltà ed in lode «per grazia ricevuta» o in orgogliosa vanità è un altro discorso. 
Comunque sia, l'inquilino, il gestore od il proprietario (di nuovo secondo il rispettivo, più o meno miope, punto di vista) di questo tempio è sempre al femminile, eccezion fatta per l'infausta evenienza a cui si allude nel dir che «solo le donne brutte suonano bene il pianoforte».
Si deve al genio di M. Bartak (ceko,* ma che ci vede benissimo) la sovrastante descrizione di un disturbo ottico non facilmente classificabile, che affligge più d'un malcapitato. Tra questi, chi scrive.

* Al riguardo, mette conto ripetere che l'italiano non è la lingua del what you see is what you get. A parità di pronuncia, infatti, c'è una bella differenza tra «cieco» e «ceco» («ceko» e - se non fosse riprovevole a squola - «ceqo»). In omaggio alla francescana kappa, che sarebbe stato meglio serbare come c dura, lasciando alla c la mollezza di un ciao da scrivere semplicemente cao ed al ceko, va detto che questa è davvero una lingua nella quale ad ogni suo fonema corrisponde una delle [quarantadue, forse troppe] sue lettere.

Tornando alle traveggole, nel mio piccolo anche a me, come al semi-ceko G. Meyrink, appaiono nuvole d'aspetto curioso, per esempio a forma di manico d'ombrello, ovvero di J. E si sa che le manifestazioni divine assumono sempre la forma che il credente fornisce loro, così come l'acqua - nel classico esempio tradizionale - ha il colore del vaso che la contiene.
Ora, poiché come è noto la J sta per una doppia I finale (purché la penultima non sia accentata: inizii vale inizj, ma avvìi non vale avvj) ed essendo la I, come l'alif, una delle più diffuse denominazioni divine,* sembra inevitabile che a me (ed a chi come me è affascinato dalla contraddittoria duplicità delle Sue epifanie) l'Uno appaia in forma di Due. Anche questo, in fondo, è un modo come un altro - dalla "non dualità" dell'advaita vedico all'unicità del tawhid islamico - per esortare a non vedere doppio. In termini meno giocosi, per esortare a veder l'Uno nel due (tre, quattro, ecc.) ed il Due, cioè il Tre, nell'uno.


* Ne abbiamo già parlato, altrove. Qui aggiungiamo una noterella a proposito dell'inglese, il cui pronome di prima persona vuole sempre la maiuscola. È uno dei tanti anacronismi di una lingua agitata [dal vento della moda] in superficie, ma immobile in profondità, come si è visto con l'assonanza bear-boar (orso e cinghiale, ovvero re e papa insieme), con la riduzione della woman a mera wife of man e con la lettura della "capienza", cioè della capacità di capire, in chiave di doveroso "sottostare" (to understand).

Visto che ieri abbiamo fatto ingiustamente arrossire un porporato, precisiamo, sperando che ci venga perdonata la leggerezza, che il dipinto era un falso. O meglio, che era la sovrapposizione - operata con rara maestrìa - di due veri (l'uno - vedi - di Georges Croegaert e l'altro - vedi - di John William Godward).
Ora, se due negazioni affermano, due affermazioni negano?
E una doppia verità non è che falsità?
All'homo religiosus queste domande non dànno alcun fastidio, perché sa che "Dio ne sa di più" (Allahu a’lam). Del resto, come è indubitabile che il sole sia fermo e che la terra giri, altrettanto indubitabile è che uno abbia bevuto un po' troppo, se vede la terra girare.

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Purtroppo è sempre vero anche il contrario, perché accadono strane cose in questo mondo.
Per esempio, la frenesia del cambiamento a tutti i costi (dal sistema operativo alla norma legislativa, dalla moda al partner, insomma dal nuovo di ieri al nuovo d'oggi), palesemente incoraggiata a scopo dissacratorio nei confronti di ciò che di tradizionale ancora sopravvive, non è forse d'aiuto all'atteggiamento specifico del credente, cioè alla disaffezione, se non al disgusto?
Parliamo di disaffezione verso il transeunte, ovvero del contemptus mundi o della fuga saeculi di memoria classica, beninteso, perché nulla è più alieno all'animo del credente della disaffezione verso il prossimo, amico o nemico, più piccolo o più grande di che tale prossimo di volta in volta sia.* Il distacco dalle vecchie abitudini (sia pure quella dell'uso di una scorciatoia da tastiera che non funziona più, nella nuova release di un software) è in qualche modo un prepararsi alla morte.


* L'atarassia dello stoico, come l'imperturbabilità del buddista, non esclude la compassione verso le creature. Compassione, cioè condivisione della sofferenza altrui (ed ovvia minimizzazione della propria). A questo riguardo (neminem laedere o ama il tuo prossimo come te stesso, as you like) andrebbe sottolineata un'ulteriore conferma dell'assioma tradizionale relativo alla compresenza di due verità, l'una affermante la bontà della solitudine (beata solitudo = sola beatitudo), l'altra circoscrivente le possibilità di salvezza nell'ambito esclusivo della carità (Deus caritas est).

Due affermazioni negano, certo. Ciascuna dal suo punto di vista. Donde l'ineffabilità dell'Essere, tradizionalmente raffigurato al centro (il mozzo, la cavità centrale) della ruota i cui raggi simboleggiano i molteplici punti di vista umani. DefinirLo uno e trino non è più contraddittorio del pensarLo maschio e femmina. Eppure lo è, uno e trino, maschio e femmina, primo ed ultimo (Al-Awwal e Al-Akhir), manifesto ed occulto (Adh-Dhahir e Al-Batin), Al-Qâbid ("che chiude la mano") e Al-Bâsit ("che apre la mano"), Al-Khâfid ("che abbassa") e Ar-Râfi’ ("che innalza"), At-Tawab ("che perdona") e Al-Muntaqim ("che non perdona") e così via, lungo ogni coppia di opposti e di contrarii pensabili nel tempo e nello spazio.*
Ma la Verità ovviamente è una ed una sola, che tutto cioè accade secondo la Sua volontà. Ed anche questo mondo, che a non pochi di noi (me compreso) sembra andare in malora ogni giorno di più, va dove e come vuole Dio. E perfino lo scemo di turno, vuoi quello che tenta di cambiarlo, il mondo, vuoi quello che tenta di fermarlo, fa - suo malgrado - esattamente quel che Dio (Al-Jabbâr, "Colui che costringe") vuole. Con bella umiltà, gli antichi dicevano che «l'uomo propone e Dio dispone».


* Poiché il tempo corrisponde all'udito e lo spazio alla vista, citiamo ancora due dei "99 bellissimi nomi di Dio": Al-Basîr ("Colui che [tutto] ascolta") e As-Sami’ ("Colui che [tutto] vede").

C'è il poeta e c'è la poetessa. C'è l'artista, ma non c'è l'artistessa.
A proposito di questa carenza lessicale, e perciò della scarsità numerica di artisti di genere femminile, qualcuno dice, non senza malizia, che le donne dovrebbero entrare in un museo solo nude. Gli si potrebbe rispondere, con pari malizia (vedi), che un'opera d'arte mica la si espone imballata (sottintendendo che, se il maschio è l'artista, il capolavoro è la femmina). In questo senso la «donna-oggetto» è un oggetto d'arte.*
Non ogni maschio è artista, certo, sebbene si possa affermare - almeno metaforicamente - che ogni artista sia maschio. Così non ogni femmina è un capolavoro, sebbene ogni opera d'arte sia simbolicamente femminile [nei confronti del suo creatore]. Inoltre, se quest'ultimo ha l'iniziale maiuscola, lo stesso artista, in quanto creatura, è a sua volta un oggetto. La cosiddetta «creazione artistica», insomma, nonostante ciò che diremo tra poco circa l'homo faber, sembra un abuso linguistico.

* Non solo, perché le attenzioni che ella rivolge al suo corpo fanno di quest'ultimo un oggetto a se stessa, artista a sua volta.

Si può addirittura sostenere che ogni produzione non sia che mera ri-produzione (l'Artista essendo uno solo) e che noi ci si possa limitare al maquillage di un quid preesistente, la Natura, id est il capolavoro, essendo una sola. In merito andrebbe notata a) l'equivalenza tra dipinto e fotografia, fino ad ieri solo teorica ed oggi - grazie al computer - anche pratica e b) l'ambivalenza dei vocaboli in questione, quasi che all'uomo, sia maschio che femmina, competa solo la procreazione, invece della creazione.
Infine, procreazione o riproduzione che si voglia, si può obiettare che la meccanicità dell'atto generativo mal si presti al paragone con la creazione artistica. Far figli non è fare fotocopie, in altre parole. Ciò nondimeno la cura della prole, intesa sia come allevamento che come educazione [delle creature], è un'arte. Ed è un'arte tradizionalmente riservata alla femmina, stavolta innegabilmente creatrice, oltre che procreatrice.

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La classica trilogia "amante-amato/a-amore" (ovvero soggetto, oggetto ed il loro rapporto) presenta non pochi punti in comune con quanto sopra. Nella fattispecie, in termini neutri, se l'artista è l'amante, l'opera d'arte è indubbiamente la sua amata creatura (il che, tra parentesi, conferma quanto dicevamo altrove sull'amore come proiezione). Arte come amore, sicché. E creazione come arte.
Il discorso si complica all'apparizione di un nuovo elemento, cioè lo spettatore. Elemento necessario, per quanto non indispensabile, se è vero che si fa qualcosa di bello anche per farla vedere [a qualcuno diverso da chi l'ha fatta]. In quale veste ed in quale misura si pone costui, nei confronti dell'oggetto d'arte? Soggetto fruitore - ma pur sempre soggetto, come l'artista - o oggetto da fruire? Delle cui lodi o del cui mecenatismo usufruire, cioè, in modo che il fine della crezione artistica sia lo spettatore, invece del prodotto della creazione stessa? Chissà. Vero è che ogni forma d'artigianato è arte, pertanto, come un buon cuoco non cucina per sé, un buon pittore dipinge per uno spettatore.* D'altra parte un vero artista (pittore, fotografo, scultore, musicista, poeta, ecc.), a differenza di un cuoco, non dipende dagli umori del pubblico [pagante].

* In questa prospettiva la stessa Creazione è stata creata perché l'uomo la ammiri e ne renda lode al Creatore.

Ars gratia artis significa appunto questo, l'art pour l'art [et pas pour l'argent], ovvero dipendere dal volere delle muse e non dal benvolere dei passanti. Ed è affermazione squisitamente religiosa, come prova la dedica Ad Majorem Dei Gloriam che l'onesto artiere apponeva ad ogni suo manufatto (artefatto artificiale, ma non artificioso).

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Per finire, tre appunti.
  • L'appropriazione umana del termine creare, che dovrebbe essere di esclusiva pertinenza divina, non è del tutto indebita. Bene o male, l'uomo è il vicario (khalifa, in arabo) di Dio. Del resto, creare significa null'altro che "fare" (se dal nulla o meno, soprassediamo): proviene infatti dalla radice sanscrita KAR (che, se la scrivi CAR, capisci perché la nostra massima creazione sia l'automobile) o KR, biconsonantico presente - con questo significato - in tutto il corpus di lingue di derivazione indoeuropea. Al riguardo, oltre a ciò che s'è scritto qui, basta pensare a Cerere ("colei che produce", "che fa crescere") o a Cronos (perché ci vuole "tempo" per produrre e per far crescere).
  • Comunemente si crede che le guerre si muovano per brama di denaro, ovvero per cupidigia di qualcosa il cui possesso si traduce in denaro. E se il movente fosse, anziché l'amore dell'utile, l'amore del bello [altrui]? Quante opere d'arte sono state trafugate, nel corso dei secoli passati? Quanti musei, biblioteche, chiese, monasteri e collezioni private si sono saccheggiati? Quante nazioni sono state costrette alla fame per obbligarle a vendere il loro patrimonio artistico?
  • Uno dei tanti modi per valutare la bassura della fogna in cui siamo scivolati noi occidentali (giapponesi non esclusi, purtroppo) è quello artistico. Paragonare la produzione pittorica, ad esempio, ad onta di qualche lodevole e coraggiosa eccezione, dei paesi [sul viale] del tramonto, cioè dell'occidente, con quella degli artisti, ancora ad esempio, russi, cinesi od iraniani, è abbastanza deprimente. Al riguardo, poche «creazioni» sono emblematiche quanto il celebre orinatoio, già vecchio di un secolo, di Duchamp (capolavoro che solo la firma autografa differenzia dalle imitazioni presenti in ogni cesso pubblico e privato).

Un commento di P. Cammerinesi alla vicenda giudiziaria di un neonato sottratto alle cure di genitori ritenuti inabili alla bisogna, apparso qualche giorno fa nel sito Il giornale del ribelle, L'enigma del karma, contiene alcune affermazioni degne di nota.
La prima riguarda la certezza "che esiste un accordo ben preciso tra carnefice e vittima, tra chi agisce il male e chi lo subisce. La cosa può non piacere - e certamente non piace ai più - ma non si subisce un crimine se esso non è strumentale alla nostra evoluzione".
La seconda, in risposta a "chi esclama 'vorrei vedere te se ti avessero sfregiato con l’acido senza motivo'" è: "Non dico che sia facile accettare la cosa, né che ci riuscirei, ma ciò non toglie che le cose stiano esattamente così".
La terza, riassuntiva, si articola come segue.
"Sappiamo che la scelta dei genitori non è in alcun modo un fatto casuale. Il nascituro li cerca a lungo, sovente contribuisce addirittura al loro incontro, gira loro intorno assiduamente finché il momento non sia maturo per l’incarnazione. Lo spirito circonda la madre con grande amore, preoccupato che le possa accadere qualcosa che metta a rischio l’incarnazione per cui ha atteso tanto tempo e verso la quale sente un irresistibile anelito.
E come li sceglie questi genitori? Attraverso quelle che sono le sue esigenze karmiche, di destino, compreso il tipo d’involucro fisico (ereditarietà) che quei due genitori saranno in grado di fornirgli.
Naturalmente c’è chi si sceglie un destino ‘leggero’ e chi un destino ‘pesante’. Ma è comunque il destino che il nascituro si è preparato [...]. È il suo destino, per lui il migliore dei destini possibili".
L'autore conclude col chiedersi, da un lato, se sia "giusto modificare radicalmente il destino di questo essere togliendolo ai genitori [...], per quanto poco acconci siano, per affidarlo ad un’altra coppia, totalmente estranea al suo destino" e, dall'altro, se "magari era proprio destino di quel bambino essere affidato a quei genitori adottivi".
Sembrano domande destinate a restare senza risposta.
Del resto, anche la consapevolezza che "muor giovane colui che al Cielo è caro" cozza contro la lotta alla mortalità infantile (se non contro tutta la medicina).

In merito alle recenti esternazioni di alcuni vertici ecclesiastici, favorevoli ad una immigrazione [coatta] che rischia di portare al collasso il già traballante Stato italiano, bisogna ricordare che quest'ultimo è nato - non più di un secolo e mezzo fa - fagocitando lo Stato pontificio, cioè una Chiesa che, tramite entità territoriali a lei devotamente subordinate (in primis, i Borboni), di fatto governava la penisola.
Ovvero (in primis, gli Asburgo), di fatto governava il sub-continente.
Se si guardano le cose in quest'ottica, papa Bergoglio, lungi dal rappresentare il Badoglio del Vaticano, ne è in realtà il ritrovato orgoglio. Solo la Chiesa, infatti, è in grado di gestire le invasioni barbariche (per giunta, facendo di un barbaro il suo paladino).

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Qualcuno ha ventilato un'altra possibilità, secondo cui l'imminente estinzione degli europei - vuoi per invecchiamento o vuoi per denatalità (e quest'ultima vuoi per contraccezione, vuoi per aborto o vuoi per omosessualità) - ha spinto le gerarchie ecclesiastiche verso un'evangelizzazione alternativa: centripeta, anziché centrifuga, non missionariamente invasiva, ma parrocchianamente ospitale, rivolta insomma più agli invasori che agli invasi.

Invasati, per dir meglio, come gli indemoniati che ormai siamo. Anime perse.
C'è sempre la chance del figliuol prodigo, certo.


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Alla terza ipotesi, quella «sedevacantista», non vogliamo neppur pensare (se non altro perché l'ultimo papa, in tal caso, sarebbe Pio XII).

Nel parlar di natura umana, si dà per scontata la presenza di qualcosa che rende l'uomo, femmina e maschio, diverso da chi uomo non è, ovvero da chi non è provvisto di natura umana. Dal punto di vista morfologico, si direbbe che qualcosa - per quanto non facile da classificare - ci sia. Ma da altri punti di vista colui che indaga on the human nature deve ammettere di non capirci un'acca, se non altro perché l'uomo è la sola creatura in grado di modificare a volontà la propria natura.
Da qui a dire che la natura umana non esiste, il passo è breve.
Abbiamo detto "a volontà", quindi senza coercizione esterna.* In altre parole, il pensiero (convincimento, credenza, ecc.) può cambiare la realtà, il che è un modo come un altro per affermare che la pretesa realtà esiste solo come visione (per lo più - ma non sempre - socialmente condivisa) della realtà.

* Coercizione dichiarata, s'intende. Ma la volontà può venir influenzata - e perciò modificata a sua volta - da una coercizione sottile, melliflua, accattivante, indirizzata cioè agli strati più suggestionabili sia della collettività che del singolo, da una coercizione insomma tanto più insidiosa quanto più non dichiaratamente coercitiva (o dichiaratamente non coercitiva). Circa gli strati suddetti, che fino ad ieri s'usava definire sbrigativamente inferiori e che oggi vengono osannati, sembra superfluo tentarne un elenco.

A proposito di human [nature] e di homo (vuoi sapiens, vuoi insipiens), concetti dei quali lo filosofo honesto confessa di non capire un'acca, ma di cui gli è chiara la malleabilità, a quest'ultimo scopo le tre H seguenti sembrano indispensabili: la prima, terra terra, è lo humus "che non disìa d’esser più superno", seconda è la humiltade "che fa volerne solo quel ch’avemo" e terza, eterea, è lo humour "che fa in Sua volontade nostra pace".

La nascita è la causa della vita.
La vita è l'effetto della nascita.
La morte è l'effetto della vita.
La vita è la causa della morte.
La nascita è la causa della morte.
La morte è l'effetto della nascita.
La morte [a questa vita] è la nascita [all'altra vita].

Nell'economia del creato l'importanza del singolo sembra limitata alla funzionalità collettiva.
La tempesta ormonale che si scatena in chi coglie il frutto a lungo desiderato, vuoi dell'amore o vuoi del potere, la si direbbe un trucco, un'esca, una trappola della Natura per far 'sì che gli esemplari migliori del gruppo perpetuino l'esistenza del gruppo stesso.
La selezione naturale è abbastanza evidente, insomma, ma l'individuo non è il suo scopo, bensì il suo mezzo. La rivalità tra due o più maschi per il possesso della femmina migliore, come quella tra due o più femmine per il possesso del maschio migliore, insomma la rivalità interindividuale per la supremazia, non è che lo stimolo fisiologico alla procreazione migliore e poi alla cura della prole migliore. Idem, per la rivalità tra un gruppo, un branco, un popolo e l'altro. In altri termini, la collettività sta all'individuo come la macro-collettività, cioè la Natura, sta alla micro.*
Fin qui, tra l'umano e l'animale non c'è differenza. Nel regno animale, però, chi è inutile, o controproducente (i vecchi, i malati. ecc.), viene abbandonato, laddove gli umani se ne fanno - o dovrebbero farsene - carico.**

* Da questo punto di vista, chiedersi perché Dio permetta il male non ha senso. Il cosiddetto «male» è null'altro che la privazione, o la diminuzione, del bene di Tizio [a favore del bene di Caio]. La scomparsa del bene particolare quindi preserva il bene generale, ovvero il Bene, nozione metafisica i cui riflessi nel mondo fisico possono apparire davvero incomprensibili (come nel caso di chi depone le proprie uova nel corpo altrui, affinché i neonati si nutrano di carne viva; processo ripugnante, certo, eppure materno, spontaneo, naturale, quindi - sebbene non innocuo - innocente). D'altro canto, per dirla con L. Lancelotti: "Posso godere del mio bene, finché il mio bene | va con la corrente del bendidìo. | E sempre ringraziandoLo, il buon Dio. | Se cerco di fermarlo, | imputridisce". Così, andando dalla poesia alla favola, il peccato (vuoi d'ingratitudine e vuoi di stupidità) è quello del vecchio Paperone che egocentricamente si trastulla con trapianti d'organo e trasfusioni di sangue.

** Andrebbe però detto che, nel genere umano, un anziano può tornar utile in termini di esperienza o di saggezza. Ed in qualche misura, se pensiamo all'epilessia come morbus sacer, può tornar utile anche un malato (in bilico tra il mago e la strega).

Se si accetta quanto sopra, con buona pace dell'homo homini lupus e della struggle for life, diventa inevitabile guardare con occhio critico ad un potere non fisiologico, come quello ottenuto grazie al bastone della vecchiaia tecnologico-finanziario, perché non giova alla Natura, cioè non contribuisce al Bene. Questo non significa che il potere della vigorìa corporale del più forte, benché fisiologico, sia sempre animato da un nobile scopo; significa solo che il nobile scopo c'è, ma spesso all'insaputa del più forte, se non a suo malgrado.