I fatti servono solo a comprovare una teoria.

Ergo, a) senza una teoria da comprovare - per chi senta il bisogno di comprovarla - i fatti non significano alcunché; b) raccogliere una più o meno indefinita quantità di fatti, sperando di trarne una teoria [in tal modo comprovata] equivale a mettere, come suol dirsi, il carro davanti ai buoi; c) anche la teoria più bislacca troverà qualche fatto che la comprovi.
La non sempre ovvia conclusione di quanto precede è che - se teoria proviene dal greco Theòn orào ("guardo [in] Dio") - una teoria degna del suo nome deve avere un riferimento ultraterreno, riferimento che, per giunta, esime detta teoria dal bisogno d'esser comprovata dai fatti.

Le righe di cui sopra ci sono venute in mente leggendo un dotto saggio di etimologia, la cui autrice garbatamente rimprovera ad un collega dell'800 l'adozione di etimi che spesso "varcano il confine tra la scienza e i campi sconfinati della fantasia". Ora, poiché a noi pare esser proprio l'etimologia (che, in fondo, è solo una ricerca di assonanze) la scienza che fa del relativo scienziato un fantasioso mistico, anziché un monotono accattone [di fatti], cerchiamo un esempio in merito. Proviamo a connettere - come fa il collega dell'800 in questione - il latino pulcher [...] con la radice sanscrita PUL, presente in quest'ultima lingua come pula e pulaka, termini che designano l'orripilazione non come la si intende oggi, causata dalla paura, ma come sintomo dell'estasi; da qui pulakim e pulakita ("che ha i capelli dritti").* Si ritrova tale radice anche nel verbo pûl ("accumulare", "accrescere"), che si apparenta ai latini complere, explere, implere e replere, tutti sinonimi dei nostri "riempire" e "colmare", negli aggettivi pul ("grande", "gigantesco") e pulu ("molto"), nonché in pulaka ("pulce").
Effettivamente, senza la bussola di una teoria c'è da smarrirsi. Che c'entra la pulce, il piccolo per definizione, col grande?

* Platone, nel Fedro, parla di un brivido di paura provocato dalla vista del bello; e del resto i verbi latini horreo e horresco, pur applicandosi tendenzialmente al terrore, servono altresì ad esprimere la stupefazione. Anche la bellezza della Beatrice dantesca è tale «ch'onne lingua deven tremando muta | e gli occhi no l'ardiscon di guardare». Di tremito, oltre che di panico, s'è parlato anche qui.

Diamo un'occhiata, allora, al vocabolario. Il trilittero PUL è presente - fatte salve involontarie omissioni - nei seguenti lemmi: capula ("brocca"), capulum ("cappio"), capulus ("bara", "feretro"), copula ("guinzaglio", "legame"), copulatio ("congiungimento"), crapula ("sbornia"), discipulus ("discepolo"), epulae ("vivande"), opulentia ("opulenza", "abbondanza", "ricchezza"), papula ("pustola"), populus ("popolo" e "pioppo"), pulchritudo ("bellezza"), pulex ("pulce", "afide"), pullatio ("covata", "nidiata"), pullare ("vestire a lutto"), pullulare ("pullulare", "brulicare"), pullum e pullus (nome il primo e aggettivo il secondo, nel medesimo significato di "[colore] bruno", "scuro", "nero"), pullus ("pulito"), pullus ("pulcino", ma anche "germoglio", ovvero "pollone"), pulmentum (da pulpamentum, a sua volta da pulpa, cioè "companatico"), pulmo ("polmone", ma anche "medusa"), pulpa ("polpa", "parte tenera di un frutto o d'un pezzo di carne"), pulpitum ("pulpito"), pulposus ("muscoloso"), pulsus ("impulso", "pulsazione"), pulticula ("poltiglia", "pastone", "polenta"), pulverare ("polverizzare", "disseccare"), pulvinus ("cuscino", "rialzo di terra", "banco di sabbia"), pulvis ("polvere"), pupula e pupulus ("bambina/o" - ovvero "pupetta/o" - e "pupilla [dell'occhio]", scapulae ("scapole"), scapulus ("scapolo", cioè scapolato, sive ex capulo), sepulchrum ("sepolcro") e vapulare ("buscarle", "ricever botte").
Come si vede, davanti a questo pullulare di contraddizioni c'è davvero di che far rizzare i capelli. Che c'entra la bara con la covata? E il prenderle [di santa ragione] con l'opulenza? E la carne con la polvere?
Eppure, a ben vedere, un comun denominatore c'è. Ed è rappresentato dalla moltiplicazione, quella moltiplicazione brulicante ed [apparentemente] indiscriminata operata dalla Natura. Una Natura che sarà pure «matrigna» - come piange il poeta - ma che, con tutti questi figli, deve pensare più alla collettività che al singolo, più al plurale che al singolare. Del resto il Signore stesso ha detto: "Crescete e moltiplicatevi ['ché a sfoltirvi ci penso Io, se Mi lasciate fare]".
A questo riguardo il binomio consonantico PL, già introdotto poc'anzi a proposito del plurale, è presente anche in greco, con lo stesso significato reiterativo ed espansivo, dagli avverbi pollàkis ("spesso") e polý ("molto"), attraverso gli aggettivi omologhi, fino ai nomi come pòlis, metropoli o megalopoli ch'essa diventi. Ciò detto, sembra naturale che, quando la brocca è colma (ovvero, fuor di metafora, quando la moltiplicazione-riproduzione ha raggiunto un certo limite), in plenitudine temporum la si vuoti, per poterla pulire (in latino, polire).
Da questo punto di vista, che è quindi sovraindividuale, si appianano non pochi dei contrasti generati dalla suddetta radice PUL, quasi che la carne (pulpa, epulae, opulentia, ecc.) d'oggi sia da polverizzare (pulverare, vapulare, pullare, ecc.) domani o che lo scapolone d'oggi, galletto dedito ai piaceri della copula e della crapula, si trasformi in un fedele discepolo [della Natura] e, accettato il capulum matrimoniale, ovvero presa la sua batosta, metta al mondo,* se non un popolo di pupi e di pupe, almeno una bella nidiata di pulcini.

* Mondo, com'è noto, viene da mundus ("pulito", come peraltro pullus). Si direbbe che vi sia un nesso, allora, tra i tentativi moderni di interferire con la Natura e l'attuale degenerazione del mondo in inquinato «immondo».

Quindi, eccezion fatta per le scapole e per i diminutivi consimili, all'insegna della moltiplicazione-riproduzione si spiegano le allusioni all'incredibilmente prolifica pulce, al pioppo dalla rapida crescita, all'enfiagione subitanea della pustola, alla perpetua esuberanza della vegetazione, alle invadenti meduse, agli innumerevoli granelli di polvere, all'incremento demografico, al continuo rimestare la polenta, all'infaticabile ripetersi delle pulsazioni [cardiache e - come alternanza di impulso ed espulso - polmonari] dell'individuo vivo ed all'inesauribile formicolìo di altre vite nell'individuo morto.
In poche parole, per la Natura anche l'oscurità di un sepolcro (rialzo di terra o letto di sabbia che sia) è un buon pulpito. Spettacolo terrificante, certo, e perciò non privo di sovrumana pulchritudo.

oOo

Abbiamo giocato un po', inserendo nella lista di cui sopra i diminutivi che finiscono in -ulo/a (-olo/a), come le scapole, che nulla hanno a che fare con la radice PUL.
Scapola proviene dal sanscrito skap/skaph, da cui il greco skaptein e l'italiano "scavare" (donde "scafo", ovvero "[barca di legno] scavato". Scapola vuol dire semplicemente "piccola zappa", perché è piatta, un po' incavata ed appuntita come la lama di una zappa. Anche "luppolo" (lupulus o lupinus) è un diminutivo, non citato nell'elenco precedente. La radice PUL non c'entra.
Scapulae come scaphulae, sicché. Del resto anche lo scafoide è un osso incavato. Ed anche in inglese la scapola è detta blade bone, o "lama d'osso", se non shoulder blade. Ed è detta pure wing bone, quasi a ricordo delle ali che - fino ad ieri - ci spuntavano lì.
A proposito dello scavare [dall'alto verso il basso], ce l'immaginiamo un film il cui protagonista sia un cadavere desideroso di uscire dalla "fossa" (skaphos, in greco)? Cosa può fare, se non impugnare una scapola - una sola, perché l'altra gli serve a muovere il braccio restante - a mo' di zappa e con quella scavare dal basso verso l'alto? Una sola zappa, quindi, quella che scava la fossa per il morto e quella che scava la fossa per il neonato. Neonato con le ali, ovviamente, come quel simbolo della resurrezione che è la cicala, vera figlia della Terra, capace di vivere per lunghi anni nel sottosuolo, allo stato larvale, priva di ali e nutrendosi di radici, per poi spiccare il volo e dedicarsi interamente alla musica, senza affannarsi "per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini" (Matteo, VI, 34).


Chi si nutre di radici può trovare qualcosa anche qui, qui, qui (dove è citato un notevole passo di Fulcanelli), qui, qui e qui.