"Genius e ingenium hanno avuto la stessa origine" - spiega Cristina Vallini, alla quale dobbiamo buona parte della presente indagine - ma non la stessa fortuna. Delle due parole, infatti, la sola ingenium è rimasta «sulla bocca del popolo», mentre genius ha continuato a vivere soltanto nella lingua dotta; da quest'ultima il «genio della lingua» è stato rievocato nella Francia settecentesca e da qui rilanciato nelle lingue dell’Europa contemporanea con il valore moderno, quello corrispondente appunto all'italiano genio.
Della vitalità ininterrotta del solo ingenium rendono testimonianza i dialetti: dal toscano giegno ("ingegno") al calabrese gnegnu ("capacità di giudizio"), senza tralasciare il comasco ingègn ("ordigno", "macchina"), il molisano ngegne ("torchio") o il sardo ingeniu ("inganno"). Nell'ambito romanzo ingenium si è conservato in tutta l’area occidentale, ad esempio nello spagnolo ingenio ("ingegno", da un antico engeño, ossia "macchina da guerra"), nel portoghese engenho, nel catalano enginy ("artificio", da un precedente enjeyns, cioè "spirito", "carattere"). Altrove troviamo il francese engin/engien ("ingegno" e "marchingegno"), passato tale e quale in olandese ed in inglese, nonché il provenzale engenh ("saggezza"). Si trovano anche forme con l'erosione totale del prefisso, come il di nuovo provenzale genh ("artificio", "abilità") o il francese antico gien ("volontà", "desiderio"); quest’ultima forma si conserva nell’espressione avoir du gingin ("essere ingegnoso"), in cui il valore scherzoso del raddoppiamento ricorda quello del fiorentino gnégnero ("comprendonio").* Nel complesso, la storia della parola mostra l’emergere di un valore moralmente riprovevole alludente all’inganno (come nel francese parler par enghien, che vale "parlare in modo ingannevole") e insieme di un valore amoralmente neutro, ma non necessariamente immorale, relativo a qualche "congegno", "marchingegno" o addirittura "ordigno"; da questa serie discende il derivato, di origine francese, ingegnere.

* Forme senza il prefisso in si trovano documentate anche nel latino medioevale (come genium, attestato nel X secolo); ad esse si collegano l’italiano antico geniu ("inganno"), il catalano giny ed i loro equivalenti.

Nella storia delle due parole, oltre al fondamento etimologico, sussiste la percezione dell'antica valenza semantica e morfologica, come rivela il motto vichiano «ingenium, propria hominis natura», che riecheggia definizioni auliche quali l'oraziana «genius, humanae naturae deus». D'altra parte la famiglia di genius/ingenium, in latino, è assai vasta; citiamo in proposito alcuni termini, fra quelli che i grammatici riuniscono sotto il lemma del verbo più rappresentativo del significato di base, che è genô (o gignô), ovvero "genero" e "produco": germen, (da gen-men), genus, gens, generâre, genitor, genuînus, genetîvus, genitâlis, generôsus, degener, indigena, benignus, nâscor, nâtus, nâtio, nâtûra.
La radice comune, la Generosa, è sempre lei: Ghe, Gaia, Gnea (che sa farsi lignea ed in tal modo ignea). Questa radice, della quale s'è trattato qualche giorno fa, è peraltro ben riconoscibile nel repertorio indoeuropeo, caratterizzandosi formalmente - ci serviamo delle parole della Vallini - per la presenza in posizione iniziale di un’occlusiva palatale sonora, e cioè di un suono relativamente raro. Grazie a questa particolare stimmata fonetica, la radice GEN (GIN, GN o più semplicemente Ñ) di "generare" è stata identificata senza difficoltà dai glottologi dell’ottocento in tutti i gruppi linguistici indoeuropei, dall’indoario al celtico.* Tuttavia la cosa apparve subito imbarazzante, perché la radice di ‘conoscere’ è diffusa quanto quella omofona di ‘generare’ e si ritrova alla base di famiglie di parole numerose e ricche di derivati.**

* In sanscrito jánati significa "[egli] genera" e jajána "nasco"; in avestico zan è prefisso per "procreare", come zana è suffisso per "nato"; in armeno cin è "origine"; in greco gennaô sta per "genero" e gígnomai per "divento", come génesis per "nascita"; in latino genô è "genero" e gignô "produco"; in umbro natine è "popolo"; in gallico cintu-gnatus vale "primogenito", in antico irlandese rôgegnar significa "natus sum" e gein "nascita"; in sassone cennan è "procreare", in alto tedesco kind (da gen-tom) è "bambino"; in lettone znuôts sta per "genero". Su tutto il bailamme fonico (e conseguentemente grafico) generato dai tentativi di tradurre in maniera percettibile quanto è impercettibile, cioè di rendere sensibile ai proprii sensi il sentito altrui, ci intratteniamo sovente e di buon grado. Qualche sfogo in merito è leggibile qui, qui e qui.

** Ancora in sanscrito jânâti sta per "[egli] conosce" e jnânam per "conoscenza", "comprensione"; idem in avestico, zânâiti e â-zainti; in greco gignôskô è "conosco" e gnôsis "conoscenza"; in armeno caneay si rende con "ho conosciuto", in albanese nîh con "conosco" ed in gotico kunnan (o kann) con "conoscere". Lo stesso significato hanno il sassone cnâwan, l'inglese know, l'irlandese gnin, il lituano zinoti, il tocario knânâ e l'ittito ganes.

Ma è il nome, nômen, ricondotto alla serie di nôscô/nôvi attraverso la forma [g]nômen,* a fungere da anello di congiunzione dei due virgulti ("conoscere" e "generare") spuntati dalla stessa radice GN. Non di rado, infatti, nômen è usato come sinonimo di gens o di populum, nello specifico senso di "trasmissione del patronimico", ovvero di "riconoscimento [della prole]" e pertanto di "continuità della stirpe". Senso quant'altri mai pregnante, questo, che accomuna la femmina incinta (o pregna, resa tale dal maschio che l'ha biblicamente "conosciuta") alla partoriente inginocchiata e quindi alla madre che porge il frutto del suo ventre ad un padre che "ri-conosce" il neonato, ponendolo sulle proprie ginocchia ed attribuendogli il cognome agnatizio.

* "Nomen dictum - spiega Quintiliano - quasi novimen, i.e. quod notitiam facit". Non dissimile è il senso della locuzione oraziana "mihi notum nomine tantum". Tuttavia inspiegata (e probabilmente inspiegabile) resta la confluenza di novimen e novi, di novità e di noto, di quod notitiam facit e di quanto è saputo e risaputo. Nil sub sole novi, in effetti, sta sia per "nulla di nuovo, sotto il sole" che per "nulla seppi, sotto il sole". Chissà se sotto la luna, ovvero in questo mondo sublunare, ci si può illudere di sapere qualcosa? La stessa conoscenza «in senso biblico» di cui sopra, attestata in latino nel modo di dire per cui foeminae notitiam habere equivale ad "aver rapporti intimi con una donna", si presta al doppio senso. La novità è sempre relativa al singolo, insomma, mai assoluta; ed è sempre un po' sospetta, per giunta, se si pensa ad esempio alla differenza tra mater e noverca ("matrigna"), differenza alla quale non è del tutto estranea l'implicazione che fa della prima una mater nota e, della seconda, una mignotta (ovvero una mater ignota).

L'atto tradizionale del riconoscimento, consistente - come detto - nel porre il pargolo sulle ginocchia del paterfamilias genuflesso, completa il rigoglioso quadro offerto da una radice che, come vuole l'iconografia universale, raffigura nell'inginocchiarsi la creatività (o pro-creazione) del perpetuarsi della Creazione.* Dall'uralico küjña al dravidico kûn, fino all'inglese knee, si tratta sempre della medesima cognizione: il congiugnimento maris et foeminae (quest'ultima gynaikòs, in greco), l'arrivo della cicogna e la nascita del bimbo ignudo, ignaro atque ingenuus. Su quest'ultimo aggettivo, oltre al già prima citato sant'Isidoro, che fa dell'ingenuità una caratteristica neonatale, val la pena di ricordare il francese naïveté, che suggerisce l'omogeneità tra la naturalezza e lo stato, naïf appunto, del neonato.

* Sul tema, non si può passar sotto silenzio la circostanza che vuole l'accoppiamento more pecudum, descritto icasticamente fino ad ieri con l'espressione «far la bestia a due schiene», attuato in ginocchio.

Ci fermiamo qui, per non cadere nello stesso delirio interpretativo generato dalla radice PUL/PL, sulla quale ci siamo già intrattenuti in passato. Ma di un ultimo appunto sulla cicogna, o cigno che sia, non si può fare a meno. Lo dobbiamo a L. Lancelotti. "Cinque (in arabo, khamsa) | è il numero dell’etere, del quinto elemento | il cui simbolo è l’oca (hamsa, in sanscrito; | anser, in latino), ovvero il cigno (cycnus). Cinque, | come i sensi, nel quinto dei quali, quello etereo, | vibra il canto del cigno ('swan', omofono a «suono»), | il Verbo (to swear), la risposta ('answer'), | il gioco dell’oca, l’arrivo della cicogna, | il volo dello Spirito".
Per una migliore intelligenza di questi versi bisogna sapere che a) gli elementi tradizionali sono cinque, come tuttora nella cosmologia indù; b) al primo elemento, l'etere, corrisponde il primo dei cinque sensi, cioè l'udito [delegato all'ascolto del Verbo, o del monosillabo primordiale]; c) il latino cycnus è l'anagramma dell'italiano cinque; d) nella mitica età dell'oro non esisteva la ripartizione dell'umanità in quattro caste, appartenendo tutti alla quinta (meglio, alla prima, poi scomparsa ed oggi rappresentata dalla super-casta di quel fuori-casta per antonomasia che è il «liberato», ossia il jivan-mukta indù), simboleggiata dal cigno.

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Ancora sull'araba fenice del cigno, può risultare non priva di interesse la Relazione sul viaggio intorno al mondo di Antonio Pigafetta «vicentino, cavalier di Rhodi, da lui indirizzata al reverendissimo gran maestro di Rhodi messer Filippo di Villiers Lisleadam». La Relazione, scritta nel 1520, attesta che il mito dell'araba fenice era conosciuto sia nelle Indie che nel «Cipango», ovvero nel Giappone dell'epoca. Eccone, di seguito, qualche riga.
"Quel che si narra dell'uccello detto «fenice» non si deve tener per favola, perché negli ultimi confini dell'India interiore si trova un uccello [...] il quale ha 'l becco fatto a modo di tre flauti piccolini con i suoi busi congiunti insieme; quando viene il tempo della sua morte porta nel suo nido molti legnetti piccoli, sopra li quali ponendosi, con la melodia di quei flauti del becco canta cosí soavemente che porge mirabil diletto a chi l'ode; dipoi battendo fortemente l'ali accende 'l fuoco, dal qual si lascia bruciare, e dalla sua cenere in poco tempo si crea un verme, dal qual rinasce poi detto uccello".
Il canto del cigno, insomma, riappare ciclicamente. Mai disperare.