C'era puzza di bruciato, nella fascinazione operata da un velo che un po' svelasse e un po' rivelasse (cioè che velasse di nuovo), nella speranza che prima o poi finalmente disvelasse.
Ma per fortuna ce ne siamo liberati. Grazie al periodico a tiratura illimitata che è la «donna moderna», ridotta ad un inodore trans-generico in bilico tra il pesce lesso e l’uovo sodo, siamo riusciti a sollevarci dagli angiporti della lussuria olfattiva che rapiva i nostri nonni, involandoli in un solo deliquio con le nostre nonne.
Era quello l’odore della femminilità, oggi scomparso, come quello delle rose. Un odore che andava dall'afrore afrodisiaco elogiato da Poggio Bracciolini ("ché la femina non vale neente | se di lei non viene come di luccio passato") alla «fresca aulentissima» di Cielo d’Alcamo, pur potendo talvolta farci incappare nell’«ovunque vada, seco porta il cesso» di Rustico Di Filippo. E come non ricordare il maragià che, dovendo sposarsi, faceva danzare sotto il sole le aspiranti al suo harem, debitamente intabarrate nel burqa, dopodiché a bell’agio, in loro assenza, ne annusava gli indumenti fino alla scelta di colei il cui sudore l’avesse inebriato? E come passar sotto silenzio la geisha che, ancora qualche secolo fa, indossava fino a dodici kimono sovrapposti, digradanti ad arte sia nel colore che nella lunghezza, in guisa tale che tra i petali del più esterno occhieggiasse il di volta in volta più interno?
Anche questa era classe, nobiltà, senso del dovere, rispetto delle consuetudini e, in una parola, noblesse oblige. Siamo agli antipodi dell’esausto «piacere» dannunziano, arbitrario e, oltretutto, fasullo. Ma che possiamo saperne, noi moderni, dell’odore di casa, di camino e di caldarrosta, della fragranza lieve e durevole della lavanda, dei risvegli sull’orlo di un pentolone fumigante, dell’esile aroma d’una povertà che, illico et immediate, si traduceva in odor di santità?