Noi italiani, si sa, siamo caratterizzati da un'endemica disistima nei nostri stessi confronti e da una secolare diffidenza verso il governo che, di volta in volta, gli occupanti questo paese ci appioppano. Forse perché siamo un po’ arretrati. Tuttavia, se si pensa allo stivale di qualche decennio fa, dobbiamo ammettere che il progresso fa passi da gigante.
Al riguardo, avendo letto presso Blògghete, di G. Freda, un'interessante analisi sulla Danimarca, ne proponiamo un ampio stralcio. Chi parla è un ex-poliziotto londinese.
«Sono cresciuto in una zona industriale del Galles del Sud e provengo dalla categoria dei “colletti blu”. Fino a non molto tempo fa, ero un sostenitore del procedimento “democratico” ed un conservatore accanito. Il mio risveglio iniziò con il mio trasferimento in questo piccolo e freddo paese del Nord. Fino ad allora, avevo sempre adottato un punto di vista omologato e benché, facendo l’agente a Londra, mi rendessi conto dei rapidi cambiamenti che stavano avvenendo nella società, non avevo però capito quanto questi cambiamenti fossero frutto di un disegno e di una progettazione controllata, piuttosto che di naturale “evoluzione”.
[...] La prima fastidiosa caratteristica che notai è l’abitudine dei danesi di raccontare agli altri quanto sia splendida la Danimarca e quanto ogni cosa sia migliore qui che in altri posti. Iniziai a chiedermi il motivo di questo orgoglio per tutto ciò che è danese. La varietà e la qualità del cibo non erano nemmeno paragonabili a quelle inglesi. Le infrastrutture pubbliche erano inadeguate e terribilmente lente. Il monopolio dominava ogni settore degli affari. Nessuna competizione, in nessun campo. Prodotti danesi e solo prodotti danesi [...]. Il costo della vita era pari ad almeno 2-3 volte quello della Gran Bretagna.
Le donne e le ragazze danesi, con poche eccezioni, hanno acquisito un aspetto quasi androgino e molte di loro sono ferocemente femministe nelle idee, nelle azioni e nel modo di fare. Gli uomini danesi sono per la maggior parte effeminati. [...] I danesi sorridono di rado e sono molto riservati, fino alla scortesia, eppure un recente sondaggio all’interno dell’Unione Europea mostra che sono il popolo più felice d’Europa. È questo che mi ha fatto mangiare la foglia.
Tale è la natura insidiosa della società danese, che vanta la “libertà di parola” come diritto inalienabile (vedi il caso delle vignette su Maometto), ma allo stesso tempo condanna quella stessa “libertà di parola” nei forestieri e nei dissidenti.
Verso la fine degli anni ’90 iniziai a capire fino a che punto la società danese fosse stata indottrinata. Ogni atteggiamento critico incontrava un dissenso feroce. Nessuno si lamentava mai di qualcosa che avesse natura ufficiale. Quasi tutte le persone che conoscevo, o che sentivo parlare in TV, sembravano credere che il governo danese desiderasse per loro solo cose buone. Che il carico fiscale in continua crescita fosse necessario e perfino un fatto positivo. Parliamo di una tassa sul reddito che è mediamente del 50% e di un’IVA al 25%. Questo livello di tassazione colpisce tutto, comprese le auto, le case, il cibo; insomma, qualunque cosa si possa immaginare di tassare viene tassato e anche di più. E tutti i prezzi salgono il 31 gennaio di ogni anno, immancabilmente. Tutto questo viene compreso e accettato senza fiatare dalla maggioranza delle persone.
[...] Avevo perso ogni amore per questo paese e a quel punto, pur senza sapere ancora nulla di “complotti globali”, dicevo agli amici delle cose tipo “questi non sono persone, sono ultracorpi” oppure “dev’esserci qualcosa nell’acqua, qui” e perfino “forse è nel cibo che mangiano”. Non sapevo ancora quanto fossi vicino alla verità. Poi iniziai a mettere insieme i tasselli: l’inerzia dei giovani, il conformismo dei cittadini. L’obbedienza cieca della popolazione. Una professione di apparente felicità in contrasto con l’atteggiamento avvilito della gente danese. Una visione ristretta del mondo intorno a loro, come di chi è isolato sotto una campana di vetro. Una condizione indotta di negazione nazionale, con cui si rifiutava di ammettere anche la sola possibilità che da qualche parte si potesse vivere meglio. E poi, il peggio in assoluto: l’ossessione dei danesi per il lavoro.
[...] L’acquiescenza e il conformismo acefali, l’androginia, l’atteggiamento totalmente passivo e irreattivo. Uno Stato sociale che pervade ogni cosa. Il lavaggio del cervello e la gerarchizzazione degli studenti all’interno del sistema educativo o, piuttosto, un “programma di indottrinamento” di Stato. Il ricorso alla psicoanalisi per ogni forma di comportamento “antisociale”, che non è poi nient’altro che il coraggio di criticare pubblicamente lo Stato o di porre domande scomode o anche solo l’abitudine dei ragazzini di giocare in classe. La prescrizione di “pillole della felicità” alle cosiddette persone depresse, cioè, in altre parole, a chiunque inizi ad accorgersi di ciò che lo circonda. I mass media, l’educazione di Stato, la sanità di Stato raccontano incessantemente sempre la stessa storia. La Danimarca è il miglior paese del mondo, i danesi sono i migliori in tutto. Tutte le cose danesi sono migliori di quelle non danesi. Tutto questo ha creato individui così “ammutoliti”, così impauriti, così passivi, così paradossalmente fieri, eppure palesemente affetti da un radicato complesso d’inferiorità. Arroganti, ma completamente privi di autostima.
Qui non c’è bisogno di taser o di brutali metodi polizieschi. Non ci sono nemmeno troppe telecamere di sorveglianza. Se il governo dice di iniettare ai bambini questo o quel farmaco, i danesi lo faranno perché il governo ha detto loro di farlo. Quando verrà il momento di installare microchip sulle persone, lo Stato dirà ai danesi che è per il loro bene e loro acconsentiranno senza fare domande».