Quest'oggi parleremo dell'importanza della verginità, premessa fondamentale sia del buon matrimonio che dello scassamento lecito. Circa quest'ultimo, occorre far luce sull'origine del termine «scassacazzo» e, all'uopo, ci serviremo di un sonetto caudato anonimo, ma attribuito a Salvatore Di Giacomo, del quale citiamo la sola conclusione, cioè la cauda, che recita: "M'hê scassata 'a fessa a mme? | E mo', naturalmente, i' scasso 'o cazzo a tte".
Ciò premesso, si può dedurre agevolmente a) che scassare il cazzo significa rendere pan per focaccia e b) che trattasi d'arte concessa solo ad una moglie che siasi serbata vergine fino all'incontro col suo legittimo sposo. Ergo, lo scassamento operato da qualsivoglia figura alternativa ad una moglie pre-matrimonialmente illibata (o, nel peggiore dei casi, non pre-libata da soggetti diversi da colui che in seguito la condurrà all'altare) è uno scassamento illegittimo.
Ora, quali sono le conseguenze giuridiche del proto-scassamento autorizzato, se non quelle che permettono di scassare ope legis solo a chi venga scassata de jure? In parole povere, solo ad una coppia ortodossa di coniugi è lecito scassare, a lei metaforicamente (ma ad libitum), a lui letteralmente (ma una tantum). Triste corollario a quanto precede è constatare come il progresso, fautore del rilassamento dei costumi e del calo delle braghe, penalizzando la verginità abbia depenalizzato lo scassamento illecito. Il risultato è sotto gli occhi di chiunque: scassa la nubile e scassa lo scapolo, scassa il divorziato e scassa la pluriconiugata, scassa la lesbica e scassa il gay. Tutti insieme, gay hardamente.


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Che la verginità sia una cosa seria, tranne che per le scimmie e per noi moderni, non è troppo arduo a dimostrarsi. Ci proviamo, con l'ausilio dell'ormai consueto Navigazioni e viaggi, laddove Giovambattista Ramusio - alla cui penna si devono le due note sottostanti, richiamate dall'asterisco - cede la parola prima a "Giovanni Leone detto «africano»",* quindi a Lodovico di Barthema, estensore di un celebre Itinerario,** il passo citato del quale è notevole perché rende testimonianza delle proprietà magiche, paragonabili a quelle del mana di tanta letteratura antropologica, della verginità.

Quando lo sposo è per menar la moglie a casa, la fa entrar primieramente in un tabernacolo di legno, fatto in otto faccie e coperto di belli panni di seta e anco di broccato, e la portano i facchini sul capo, accompagnata dagli amici e del padre e del marito, con pifferi e molte trombe e tamburi, e torchi in gran numero: e gli amici del marito con i suoi torchi le vanno avanti e quei del padre la seguono, e usano di tenere il cammino per la piazza maggiore, vicino al tempio. Poi che sono giunti alla piazza, lo sposo saluta il padre e i parenti della nuova sposa, e senza aspettare altrimenti lei se ne va alla casa sua e l'attende nella camera. Il padre, il fratello e il zio l'accompagnano insino alla porta della detta camera, e tutti insieme la presentano nelle mani della madre del marito. E tosto ch'ella è entrata in essa camera, il marito pone il suo piè sopra quello della moglie, il che fatto ambi subito vi si serrano dentro. Intanto quei di casa apprestano il convito, e una femina riman fuori dell'uscio, per insino a tanto che egli, avendo svirginata la sposa, porge a colei un drappo tinto e molle di sangue. Allora costei se ne va tra i convitati col drappo in mano, gridando e faccendo intender con alta voce che la giovane era vergine. A questa le parenti del marito danno da mangiare, dipoi ella, accompagnata da altre femine, se ne va a casa della madre della sposa, la quale similmente l'onora e le dà da mangiare. E se per aventura la sposa non fusse trovata vergine, il marito la rende alla madre e al padre, ed è loro grandissima vergogna, senza che gli invitati tutti senza mangiare si dipartono.
* "Questo nostro auttore ebbe molta pratica nelle corti de' príncipi di Barberia e fu con essi in molte espedizioni ne' tempi nostri. Moro, nato in Granata [...] e nella città di Fessa avendo dat'opera agli studi delle lettere arabe, in cotal lingua compose molti libri d'istorie. [...] Andò peragrando tutta la Barberia, Arabia, Soria, sempre scrivendo tutto ciò che vedeva e intendeva. Ultimamente, nel pontificato di papa Leone, preso sopra l'isola di Zerbi da alcune fuste di corsari e condotto a Roma, fu donato a Sua Santità, la quale, avendo veduto e inteso che costui si dilettava delle cose di geografia e già ne avea scritto un libro che seco portava, assai benignamente lo raccolse e l'accarezzò molto e diedegli una buona provisione, acciò ch'egli non si partisse, e appresso l'esortò e indusse a farsi cristiano e gli pose i due suoi nomi, cioè Giovanni e Leone. Cosí [il nostro autore] abitò poi in Roma lungo tempo, dove imparò la lingua italiana e leggere e scrivere, e tradusse questo suo libro meglío che egli seppe di arabo".
Il re di Tarnassari non fa sverginar la sua moglie alli bramini come fa il re di Calicut, anzi la fa svirginare ad uomini bianchi, o siano cristiani o mori, pur che non siano gentili. I quali gentili ancor loro, innanzi che menino la sposa a casa sua, trovano un uomo bianco, sia di che lingua si voglia, e lo menano a casa loro pur a questo effetto, per far svirginare la moglie. E questo intravenne a noi quando arrivammo alla detta città. Per buona ventura scontrammo tre o quattro mercatanti, li quali cominciorono a parlare col mio compagno in questo modo: «Amico, siete voi forestiero?» Egli rispose: «Sí». Dissero li mercatanti: «Quanti giorni sono che siete in questa terra?» Gli rispondemmo: «Sono quattro giorni che noi siamo venuti». E cosí uno di quelli mercatanti disse: «Venite a casa mia, che noi siamo grandi amici di forestieri»; e noi udendo questo andammo con lui. Giunti che fummo a casa sua, egli ci dette da far collazione e poi ci disse: «Amici miei, da qui a venti giorni voglio menar la donna mia, e uno di voi dormirà con lei la prima notte e me la svirginerà». Intendendo noi tal cosa, rimanemmo tutti vergognosi; disse allora il nostro turcimanno: «Non abbiate vergogna, che questa è l'usanza della terra». Udendo questo, il mio compagno disse: «Non ci faccino altro male, che di questo noi ci contentaremo». Pur pensavamo d'esser dileggiati. Il mercatante ci cognobbe che stavamo cosí sospesi, e disse: «O amici, non abbiate maninconia, che in questa terra si usa cosí». Cognoscendo al fine noi che cosí era costume di questa terra, sí come ci affermava uno il quale era in nostra compagnia, e ne diceva che non avessimo paura, il mio compagno disse al mercatante che era contento di durar questa fatica. Qual gli disse: «Io voglio che stiate in casa mia e che voi e li compagni e robbe vostre alloggiate qui meco, infino a tanto che menerò la donna». Finalmente, dopo il recusar nostro, per le tante carezze che ci faceva costui fummo astretti, cinque che eravamo, insieme con tutte le cose nostre, alloggiare in casa sua. Di lí a quindici giorni, questo mercatante menò la sposa e il compagno mio la prima notte dormitte con essa, la qual era una fanciulla bellissima di quindici anni, e servitte il mercatante di quanto gli avea richiesto. Ma dapoi la prima notte era pericolo della vita, e alla donna e a lui, se vi fusse tornato piú: ben è vero che le donne nel suo intrinseco ariano voluto che la prima notte fusse durata un mese.
** "Questo Itinerario di Lodovico Barthema bolognese, nel qual tanto particularmente si narrano le cose dell'India e isole delle speciarie, che da niun degli antichi si trovan scritte cosí minutamente, è stato molti anni letto con infiniti errori e incorrezioni; e ancor nell'avvenir cosí si leggeria, se 'l nostro Signor Iddio non ne avesse fatto venir alle mani un libro de un Cristoforo di Arco, clerico di Sibillia, il quale, avendo avuto un esemplar latino di detto viaggio, tratto dal proprio originale dirizzato al reverendissimo cardinal Carvaial di Santa Croce, lo tradusse in lingua spagnuola con gran diligenzia. Dal qual abbiamo avuta commodità di corregger ora la presente opera in molti luochi, la qual fu dal proprio auttor scritta nella lingua nostra vulgare e indirizzata alla illustrissima madonna Agnesina, una delle singulari ed eccellenti donne che a quelli tempi in Italia fusse, che fu figliuola dell'illustrissimo signor Federico duca de Urbino, e sorella dell'excellentissimo signor Guidobaldo, e moglie dell'illustrissimo signor Fabricio Colonna, e madre dell'excellentissimo signor Ascanio Colonna e della signora Vettoria marchesa dal Guasto".