C'è qualcosa, nel rosso di van Eyck (vedi i primi due particolari qui accanto), a cui ben si addice quanto scrivevamo giorni addietro sulla porpora. È un rosso cangiante, sontuoso, morbido, ma certo non "morboso" (morbid, in inglese).
Un rosso ieratico, drappeggiato con cura.
Verrebbe da dire che il fiammingo sta a Dante come il napoletano - d'adozione - che segue sta all'Angiolieri. Quel che manca in questi ultimi, infatti, è proprio la ieraticità.

Quello del Caravaggio (i restanti tre particolari, accanto e sotto), benché trattato con non minore maestrìa, è un rosso povero, scomposto - nel senso etimologico di non "compos sui" - e [apparentemente] molto spontaneo, ma che sa di vicoli e di bassifondi.
Vero è che visse solo dieci anni meno di van Eyck (questi cinquanta e lui quaranta), ma probabilmente l'«ingegno torbido et contentioso» - per dirla col suo biografo - gli avrebbe avvelenato anche un'esistenza più lunga. Piantagrane o sfortunato, insomma, il milanese (o bergamasco che fosse) trovatosi a suo agio, per poco, solo a Napoli? Tutt'e due, forse. In merito la Wikipedia, anche stavolta, si mostra utilissima.
Ecco cosa ne disse un suo contemporaneo, Giovanni Baglione: "misosi a letto con febbre maligna, senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente, come male havea vivuto".

È un rosso greve, il suo. Pesante, pedestre, da pedone (in termini scacchistici), senza regalità.
Un rosso artatamente proletario, senz'altro più moderno di quello di van Eyck.

Diversissimo dal Caravaggio, ogni faccia del quale si direbbe quella dello scugnizzo, del guappo o della vajassa, van Eyck nobilita chi ne osserva il ritratto (vedi). Può anche mettere a disagio, peraltro, non a caso trattandosi di un "ritratto con-turbante", ma ciò vale per chiunque si rivolga alla parte più aristocratica del proprio interlocutore. Eppure Gesù è sceso in terra per personaggi con fisionomia caravaggesca. In terra moderna, cioè. In cielo - o in terra futura - chissà come Lo vedremo (forse così).