La giunzione di due vocali, oggi dette «vocoidi»,* se pronunciate all'unisono, è un dittongo. Se pronunciate distintamente - come Friùli o Aòsta - è uno iato. Detto altrimenti, se viene accentata la prima delle due vocali, è un dittongo. Se la seconda, è uno iato. Almeno, così si legge nell'omonima pagina della Wikipedia (che però si premura di evidenziare qualche discordanza tra uno studioso e l'altro, visto che c'è chi considera iato sia pìo che piòlo). In effetti, potrebbe anche esser vero il contrario: se viene accentata la prima delle due vocali, è uno iato; se la seconda, è un dittongo. Ma non è più semplice considerare dittongo (trittongo, quadrittongo, ecc.) ogni concomitanza di vocali, qualora non diversamente specificato? Così, ad esempio, «speciale» contiene il dittongo ia, a meno che non appaia scritto specïale (o specîale, o addirittura specīale, grafie tutt'e tre equivalenti, ognuna a suo modo significando un raddoppiamento o un allungamento della i), nel qual caso ia è iato.

* Per giunta, la fonetica ci mette in guardia: "Non si deve confondere il termine 'vocoide' con quello di 'vocale', che indica un'entità astratta, un fonema, la cui realizzazione prevalente è un vocoide, ma che può anche avere come allofono secondario un contoide". È notte fonda, per il povero ragazzo di campagna che scrive.

Sicché a me pare che la pronuncia ìato (tra l'altro, più conforme al latino hiatus) separi maggiormente le prime due vocali, rispetto a chi dica iàto. Se così fosse, anche la parola «iato» è un dittongo, dittongo che sarebbe gradevole ammantare del fascino démodé della j, ovvero della «i semivocalica», scrivendolo jato. Lettera curiosa, la «i lunga», al secolo «géi»: James e Jean non si pronunciano come Julio e Jerez. E questi ultimi due non si pronunciano come Julius e Junio (il che fa sospettare che la scomparsa della j abbia qualcosa a che fare con l'abolizione del fascismo). Inoltre va ricordato come la j funga anche da «i intervocalica», purché non accentata. A questo riguardo, sbaglio o non abbiamo casi - in italiano - di i intervocalica accentata? I soli esempii, o esempî, se non esempj, che mi vengono in mente sono quelli dialettali: il siculo aìa ("avevo" o "aveva"), il sardo oìa ("oliva"), il napoletano fuìa ("fuggivo" o "fuggiva") ed il pugliese chiuìa ("pioveva").*
Bel tetratongo, quest'ultimo. Ma nulla a che vedere col pentatongo del nome divino (i, e, o, u, a), letteralmente non scrivibile, in una grafia tradizionalmente consonantica, oltre che impronunciabile. 
Per chi vi abbia interesse, aggiungiamo che l'«esatongo» non esiste. L'unico esemplare di questa specie favolosa appare nei refusi dei testi in OCR, ad esempio nel "Chicago Daily Tribune" del 27 giugno 1885 (pag. 15). 

* Sulla deriva fonetica del meridionale e napoletanissimo chiove ("[Egli] piove"), Giove, Geova, Juppiter, Dyaus pitar e Dio padre, fuorviante da un verso e no dall'altro, giova tacere. Va detto, invece, che quest'ultimo idioma brilla per la sua concisione. Al riguardo, si suole affermare che l'uso partenopeo di elidere la vocale finale provoca un «ritorno del represso» quasi palingenetico. A mo' di esempio, supponiamo di chiedere all'addetto alle informazioni di un ufficio pubblico quale sia lo sportello dedicato ad una certa pratica e che gli sportelli siano contraddistinti da una lettera, anziché da un numero. Qualora questa lettera sia la U, l'impiegato, dandomi del tu, può rispondere così: "Ê î a U" (laddove la prima vocale significa "devi" e la seconda "andare").
Ancora a proposito del napoletano, seppur divagando oltre i confini del politongo, va segnalata la caratteristica - schiettamente tradizionale - della sostituzione del verbo "essere" col verbo "stare", più consono alla nostra transitoria condizione umana. In tal modo, "esser morto", sia pure di stanchezza, diventa stare acciso.