Siamo grati a don Levi di Gualdo per i passi seguenti, che abbiamo tratto da un suo splendido articolo apparso il 21 marzo 2013 nel blog Papale papale (Persino il Pio V che fingono di conoscere li avrebbe spediti all’Inquisizione).

HABEMUS PAPAM: GEORGIUM MARIUM S.R.E. CARDINALEM BERGOGLIO.
Da questo momento in poi userò la parola “tradizionalismo” e “tradizionalisti” secondo l’accezione impropria ormai in uso nel linguaggio corrente, nello stesso modo in cui è impropriamente usata la parola “laico”. Ogni buon cattolico dovrebbe infatti essere un tradizionalista, se per tradizione si intende la salvaguardia e la tutela teologica e dogmatica del deposito della fede e della scrittura sulla quale la tradizione si regge e si sviluppa. Così come la parola “laico”, che nel linguaggio ecclesiale indica tutti quei fedeli cattolici e religiosi consacrati che non hanno ricevuto i sacri ordini, parola invece usata nel corrente lessico per indicare impropriamente non cattolici e non credenti. Certi ultra progressisti, che da alcuni decenni scempiano la sacra liturgia con abusi e creatività d’ogni mala sorta e certi cosiddetti tradizionalisti, auto elettisi custodi della vera e unica tradizione liturgica, hanno in comune agli opposti antipodi la stessa cosa: il senso di ribellione all’autorità della Chiesa e all’occorrenza al suo supremo Pastore. Gli uni come gli altri sono mossi da tutte quelle “migliori intenzioni” di cui sono lastricate le vie dell’Inferno.
A maggior ragione valga per gli uni e per gli altri, da qui a seguire per tutto lo scritto, la precisazione “certi” e “alcuni” e giammai “tutti”. Io non sono mai stato contrario al motu proprio circa il Vetus Ordo Missae, ma questo autentico florilegio isterico di persone che in giro per la rete si stanno dando a pianti d’ogni sorta e che in questi giorni hanno toccato l’apice del cattivo gusto [...] mi stimolano a un certo ripensamento. Molti di questi commentatori sono infatti giunti a trascendere nel vero e proprio oltraggio alla sacra persona del successore di Pietro; e ciò niente di meno che in difesa della tradizione. Forse sarà il caso di ricordare a questi soggetti non facili da indurre alla ragione che la tradizione cattolica apostolica romana risiede in Pietro, pietra angolare edificante. Una Chiesa senza Pietro non è pensabile, anzi non può esistere proprio, sebbene taluni si siano inventati persino il sedevacantismo, teoria che trascende nella pura idiozia, perché l’eresia ha una sua dignità di pensiero, e di conseguenza ce l’hanno gli eretici dotati di intelletto e talento, cosa che i sedevacantisti non hanno, tanto da non poter essere chiamati nemmeno eretici, poiché relegabili senza pena di offesa nell’ambito della demenzialità pseudo teologica e pseudo ecclesiologica. So bene che citare a certe persone i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II li indurrebbe a reputare il tutto come richiami a “fonti sospette”, perciò vedrò di accontentarli citando la costituzione dogmatica di un altro concilio ecumenico, la Pastor Aeternus del Vaticano I, promulgata dal beato Pontefice Pio IX, utile e preziosa per chiarire anche e soprattutto la figura di Pietro, il suo ruolo, il suo alto ufficio, la sua infallibilità circa quanto si esprime ex cathedra su verità di fede. Anche la fonte giudicata da certi tradizionalisti sospetta, vale a dire il Concilio Ecumenico Vaticano II, non lascia spazio a dubbi per la costituzione dogmatica sulla Chiesa. La Lumen Gentium, ricalcando la Pastor Aeternus del Vaticano I, al n. 22 scrive: «Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice Romano, successore di Pietro, quale suo capo». Tema sul quale ritornerà il prefetto della Dottrina della Fede, cardinale Joseph Ratzinger, sempre basandosi sulla Pastor Aeternus e sulla Lumen Gentium.
Ciò detto, casomai Pietro non fosse gradito a certi “cattolici” custodi autentici della vera e sola tradizione, esiste da sempre una via conosciuta e praticata sin dai primi secoli di vita della Chiesa: l’eresia e lo scisma. Come successe con lo stesso Vaticano I, dopo il quale si scissero dall’alveo cattolico i cosiddetti vetero cattolici, anch’essi custodi della “vera tradizione”, oggi ridotti a fare “pastoralterapia”, “yoga esicastico” e amenità varie. I vetero cattolici custodi della vera tradizione cattolica oggi “ordinano” le vescovesse lesbiche, che a loro volta “ordinano” preti omosessuali, che poi celebrano nozze gay, per dire a cosa spesso può portare la difesa della “vera” tradizione cattolica in ribellione a Pietro e a un Concilio Ecumenico della Chiesa.
Se difatti oltre ai canti gregoriani - di cui da sempre sono sia cultore sia esecutore - certi soggetti, che da giorni sparano raffiche verso il nuovo Romano Pontefice in nome della difesa della tradizione, conoscessero un minimo di storia della teologia dogmatica, di storia della cristologia e di dogmatica sacramentaria, saprebbero in qual modo i primi otto secoli di vita della Chiesa siano stati corollati incessantemente da eresie e scismi, basati però, grazie a Dio, su cose serie, dinanzi alle quali verrebbe voglia di parafrasare il titolo di un vecchio libro di Mario Capanna: Formidabili quegli anni (ed. Rizzoli, 1980). Sì, formidabili quei primi otto secoli turbolenti, perché da sempre la Chiesa teme molto più l’idiozia, che non la raffinata eresia portata avanti da figure di talento e di alta cultura come Ario e Pelagio. Dalle eresie ariane e pelagiane, combattute da Padri della Chiesa come Atanasio e Agostino, è nata e si è solidificata la nostra migliore teologia, mentre dall’idiozia è nata solo e di prassi sempre altra idiozia, mai la migliore teologia, tanto meno la vera difesa della tradizione cattolica.
[...] La Chiesa è un corpo in cammino che si muove e che deve necessariamente muoversi al passo coi tempi. Ciò che non muta e che mai deve mutare è la sostanza di fondo: il mistero della rivelazione e il suo messaggio di salvezza immutabile sino alla parusia. O come diceva il dottore della Chiesa santa Teresa d’Avila: «Dios no se muda jamas», Dio non cambia mai, ma tutto il resto cambia e muta proprio per sostenere la eterna immutabilità di Dio. A mutare in modo sempre appropriato e adeguato coi tempi è la forma dell’annuncio. Pertanto oggi nostro Signore Gesù Cristo scriverebbe sui giornali, si farebbe intervistare dai giornalisti, andrebbe a dibattere coi moderni scribi e farisei nei più seguiti talk show e pubblicherebbe best seller. [...] Sia chiaro a chi non mi conosce di persona: io porto con decoro la talare quando devo portare la talare, soprattutto per celebrare il Sacrificio Eucaristico, amministrare sacramenti e sacramentali, ed il clergyman col collo romano quando è consentito portare il clergyman. Non sopporto i preti à la page in maglione, o quelli con la camicia a mezze maniche sbottonata sotto il collo, perché un sacerdote deve essere sempre riconoscibile e mai sciatto. Semplice se vuole, ma sempre con grande decoro e dignità, mai con le pezze addosso. Permettetemi però di sorridere a malincuore dinanzi a giovani preti col mantello, lo zucchetto nero e il saturno in testa con tanto di nappa, perché sono anacronismi belli e buoni ostentati sia per insana estetica sia per insana ideologia. [...] Mi duole che di fondo questi “smarriti” manifestino una idea di Chiesa legata a criteri monarchici mondani, oserei dire quasi imperiali. Nell’economia della salvezza c’è un tempo per Pio IX, un tempo per Pio X, un tempo per Pio XII e un tempo per Francesco. E tutti sono risultati a loro modo santi uomini giusti al momento storico giusto, per grazia di Dio e per il supremo bene del Corpo Mistico della sua Chiesa.
[...] Come si può pretendere di fermare il tempo quando è il Cristo stesso che, a partire dalla discesa dello Spirito Santo nel cenacolo, ci ha proiettati nel tempo? O forse qualcuno dimentica il Vangelo della Trasfigurazione, quando l’immancabile, fanciullesco e passionale Pietro dice al Signore: «Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per Te, una per Mosè e un’altra per Elia» (Mt. 17, 4). Pietro voleva fermare quella immagine, quel tempo così bello, renderlo immobile, statico per sempre. Ma non era questa la missione del Verbo Incarnato, né la missione dallo stesso affidata ai suoi discepoli e alla sua Chiesa pellegrina sulla terra, proiettata dal presente al continuo movimento verso il futuro. Non ci si può dichiarare cattolici duri e puri e poi reagire all’elezione del nuovo pontefice in modi così sconvenienti e vieppiù per cose futili. [...] Una fede santa, cattolica e apostolica, non può edificarsi sui paramenti del beato Pontefice Pio IX, rispolverati dal museo della sacrestia vaticana e via dicendo, perché in nessun meandro del sacro deposito della fede è scritto che solo il tripudio barocco sia in grado di dare una non meglio precisata dignità alla Chiesa, ma soprattutto unica validità agli atti sacramentali, salvo trascendere nella follia singola o collettiva o finanche nel neopaganesimo. Tra l’altro, quei paramenti oggi considerati antichi tali non sono affatto, perché il paramento antico è la casula, il paramento moderno è la attuale pianeta nata solo sul finire del recente XVI secolo. E quando nel XVIII secolo furono prodotte e adottate quelle pianete barocche oggi considerate antiche, alla loro uscita molti gridarono allo scandalo e altri si rifiutarono di usarle, considerando la loro audace modernità troppo simile ai decori da sartoria secolare in voga all’epoca. In una lettera indirizzata al vescovo della diocesi nel marzo 1769, l’arcidiacono del capitolo della cattedrale di Reims, Françoise Marie Brison, paragonava quelle pianete moderne, in tessuti e decori, ai vestiti delle dame della corte di Versailles e tosto dichiarava che lui non le avrebbe mai indossate e come lui molti altri presbiteri, diaconi e suddiaconi.
[...] San Pio V: non c’è tradizionalista che non lo citi. Ma chi, tra loro, può dire di conoscerlo bene? [...] Nel Papa, in ogni Papa, c’è il Successore di Pietro. Non idolatriamo la persona: amiamo quello che rappresenta. Fino a Pio V, i pontefici vestivano il cosiddetto rosso imperiale, anticamente usato dai re e dagli imperatori romani. Provenendo dall’Ordine Mendicante dei Frati Predicatori, i domenicani, alla sua elezione Pio V abolì quelle vesti e seguitò a usare l’abito bianco domenicano, che non intese abbandonare, perché segno del carisma delle sua vocazione. Questo creò sconcerto e vero e proprio scandalo, all’interno di quella che all’epoca era una vera e propria corte. Proprio così: San Pio V, eletto pontefice, seguitò a vestire gli abiti del frate mendicante. Altro che mozzetta rossa bordata d’ermellino, prontamente rifiutata, o croce di metallo al posto di quella d’oro. Pio V fece molto di peggio e molto di più, peraltro in anni nei quali certi simboli, erano sentiti più fortemente ancora; [...] il successivo pontefice e quelli ancora successivi non osarono cambiare il colore dell’abito per tornare al porpora regale e imperiale. Il suo successore, Gregorio XIII, fece solo una modifica: l’abito domenicano venne fatto uguale all’abito dei cardinali, ma di colore bianco anziché rosso cardinalizio. Se non si conosce la storia della Chiesa è bene non parlare di tradizione, ma, soprattutto, chiunque rivendichi di essere un vero e un buon cattolico, non deve mai perdere di vista un elemento fondante della nostra fede, che è un dogma basato su precise parole pronunciate dalla bocca del Verbo Incarnato: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa, a te darò le chiavi del Regno dei Cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt. 16, 18-19). E, detto questo, il discorso è chiuso. Se poi qualcuno intende aprirlo per mettere in discussione questo fondamento, basandosi peraltro su risibili futilità, non può farlo dentro la Chiesa Cattolica, ma solo fuori, come hanno fatto molti, come nel tempo hanno seguitato a fare tanti altri, rivendicando sempre e di prassi di essere i più puri difensori della vera tradizione, dimenticando che la tradizione può essere basata solo sulla sacra scrittura e che la sacra scrittura è chiara senza pena di equivoco nel dire per bocca del Redentore: «Tu es Petrus».
Nella stessa pagina, meritevoli di ogni attenzione sono anche le risposte del medesimo don Levi di Gualdo ai commenti dei lettori. Ne stralciamo quanto segue.
Al contrario di Francesco I, Alessandro VI parlava proprio come Gesù, ma soprattutto aveva una grande paternità (pastorale, s’intende); ne sapevano qualche cosa i suoi figli: Cesare, Lucrezia, Giovanni e Goffredo, i primi due nati da una gentildonna romana, definita da quel simpaticone di Pasquino la “pontificia mignotta del Borgia”. Per non parlare del suo senso sia estetico che architettonico: a lui deve moltissimo Roma in monumenti e architetture e, quando celebrava un pontificale, c’erano di media un centinaio di assistenti al cerimoniale. Comunque ce ne sono stati di peggio, per esempio Giovanni XII, eletto pontefice a 18 anni e deposto a 26, dopo aver tra l’altro mutato il palazzo del Laterano in un lupanare; morto infine ad appena 27 anni, forse ucciso in un impeto d’ira dal marito di Stefanetta, moglie di un oste, che lo sorprese con la consorte non propriamente ad illustrare alla signora il libro delle Confessioni di sant’Agostino. E molti altri esempi vi sarebbero da fare, a prova e riprova che se la Chiesa è sopravvissuta in venti secoli a certi personaggi, è stato solo perchè voluta da Cristo e comunque governata dallo Spirito Santo, perchè altrimenti molti pontefici, vescovi e preti l’avrebbero già distrutta da tempo. Lei crede che in virtù dei non pochi pontefici che fecero del papato una corte di vizi, lussuria e simonia, si possa ragionevolmente condannare in toto il papato come istituzione diabolica e perversa? Ignari dei santi pontefici che hanno degnamente incarnato e restituito a più riprese storiche dignità apostolica al ministero petrino? Usando il suo stesso identico metro, noi potremmo affermare che i tedeschi del 2013 “sono un popolo di assassini”, imputando loro tutto ciò che di brutale avvenne durante l’occupazione dei vari paesi europei e di tutto ciò che accadde nei campi di concentramento. Nel simile modo potremmo imputare alla attuale popolazione russa del 2013 la responsabilità delle purghe staliniane e dei circa e oltre venti milioni di persone morte nei gulag. Gesù non è stato ucciso dal popolo ebraico. La sua morte è stata voluta, venti secoli or sono, da alcuni ebrei, da un sinedrio formato da una casta corrotta e collusa per interesse politico col potere romano. Il sinedrio non aveva la facoltà di condannare a morte nessuno, poteva solo chiedere o sollecitare una condanna a morte, che però doveva essere accettata, decretata, stabilita e infine eseguita dal potere romano che governava la Giudea. Quando si parla di “figli del diavolo”, per esempio nel Vangelo di Giovanni, il Signore si rifà, in tono polemico e deciso, a precise e singole persone di quell’eposa specifica, non a un popolo, tanto meno ai figli dei loro figli per i secoli avvenire. Perchè Gesù non si sarebbe mai pemesso di affermare che tutti i napoletani sono ladri e che i figli dei loro figli, vale a dire tutti i napolenani per i secoli avvenire sino alla parusia, sono un popolo di incorreggibili e irredimibili ladri. Cosa che per esempio io non posso dire, visto che l’unico furto del portafogli subito in vita mia mi accadde nel centro di Torino, mentre invece a Napoli, vicino alla Piazza del Gesù, due adolescenti mi rincorsero per la strada col mio portafogli in mano, che con rara disattenzione avevo lasciato appoggiato sul bancomat, dopo avere appena ritirato i soldi. Incredibile? Però vero, perchè l’esperienza mia è questa. Non solo a Napoli nessuno m ha mai rubato uno spillo, mi hanno persino rincorso per restituirmi il portafogli dimenticato, con tanto di battuta: “Padre, avete visto pe' strada ‘na femmena accussì bella da perdere ‘a capa?”.

[...] Se lei come me vive a Roma, sappia che le vecchie case religiose sono piene di lapidi a perenne memoria, ed al loro interno vengono conservati diplomi del Yad Vashem di Gerusalemme, rilasciati negli anni cinquanta col riconoscimento del titolo di “Giusti delle Nazioni” dato a sacerdoti, suore, frati, monache che durante l’occupazione tedesca misero a proprio rischio e pericolo in salvo gli ebrei dai rastrellamenti dei nazisti. E dietro a tutto questo c’era l’espresso ordine dato da Pio XII, per volontà del quale molte centinaia di ebrei furono nascosti in Vaticano, e persino fatti passare per membri della guardia d’onore di Sua Santità, ossia la guardia palatina. Pio XII chiamò “figlio del demonio” una persona sola: Adolf Hitler.

Come sacerdote e come studioso di teologia, da anni continuo a imbattermi in un problema drammatico e doloroso; e, badi bene, si tratta di drammi e dolori che nascono non dai nostri buoni fedeli, ma purtroppo dai nostri cattivi preti. In altre parole: i preti che non conoscono i documenti del Concilio Ecumentico Vaticano II sono quelli che avanti a tutti si appellano a un concilio che purtroppo non conoscono. Le faccio un esempio concreto per farmi meglio capire da lei e dai nostri lettori: ogni volta che mi sono ritrovato in chiese, perlopiù parrocchiali - ma anche in chiese di istituzioni religiose - dove si compivano abusi liturgici rasentanti non solo l’oltraggio al Mistero Eucaristico, ma rasentanti la vera e propria invalidià della celebrazione, ogni qual volta ho doverosamente protestato con il celebrante, per più volte mi sono sentito rispondere: “Forse tu non sai, che nella Chiesa c’è stato un concilio?”.
[...] A un altro confratello che, dinanzi alla mia protesta, tentava di tacitarmi dicendo “tu sei prete da pochi anni, io lo sono da vent’anni”, e, ciò detto, aggiungeva ”e poi ti ricordo che c’è stato un concilio”, risposi: “Allora dimmi come si chiamano le due costituzioni dogmatiche del Concilio Ecumenico Vaticano II”. Fece una risata e non rispose. [...] Per inciso: le due costituzioni dogmatiche sono la Lumen Gentium e la Dei Verbum. La costituzione sulla sacra liturgia Sacrosantum Concilium sul latino e le lingue nazionali recita senza pena di equivoco al n. 26: «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti. In base a queste norme spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22- 2 (consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua) decidere circa l’ammissione e l’estensione della lingua nazionale. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede apostolica. La traduzione del testo latino in lingua nazionale da usarsi nella liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra». Non solo l’uso della lingua latina non è mai stato abolito, tutt’altro: si ribadisce che il latino rimane la lingua ufficiale della Chiesa e la lingua liturgica della Chiesa universale, pur concedendo (leggi indulto) la possibilità di usare anche le lingue nazionali. Certi documenti destinati però a rimanere nel tempo e a dare direttive a tutta l’orbe cattolica, devono di necessità essere chiari e precisi senza pena di equivoco; se poi vi si riscontrano equivoci, allora vanno corretti con altri atti di magistero. Se dal n. 26 appena citato passiamo al n. 37 della stessa Sacrosantum Concilium, leggiamo: «La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico». Al n. 38 possiamo seguitare a leggere: «Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni; e sarà bene tener opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell’ordinamento delle rubriche». Inutile dire che in tal modo - al di là di tutte le migliori intenzioni - si può aprire la porta alle più diverse interpretazioni, giungendo talvolta anche a libere interpretazioni e abusi. Se la liturgia è cuore motore della vita della Chiesa e centro di unità, bisogna chiedersi anzitutto, ed in modo anche molto serio: è l’universalità che deve armonizzarsi con la località o è la località che deve armonizzarsi con la universalità? E ancora: è la località che è parte della universalità o viceversa la universalità che è parte della località? A cinquant’anni di distanza dal Concilio, basandoci sui dati di fatto oggettivi, dinanzi all’evidenza dobbiamo ammettere che diverse cose non sono andate per il verso giusto. E oggi, se andiamo a dieci messe celebrate da altrettanti dieci preti diversi, dobbiamo prendere atto che spesso, o perlomeno sette od otto volte su dieci, ciascuno celebra in un modo dissimile dall’altro.
[...] Per quanto riguarda il Messale di San Pio V riformato, o meglio ripulito e riportato alla propria natura originale nel 1962, è altresì evidente e fuori d’ogni dubbio che esso non fu mai abrogato. Cosa questa che affermò nel 2007 il sommo Pontefice Benedetto XVI quando, scrivendo ai vescovi per rassicurare diversi di essi circa lo smarrimento che in alcuni aveva creato il Motu Proprio Summorum Pontificum, spiegò: “Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso”.