È soddisfatto, il verme,
dentro un intestino che pensa suo.
Ha alzato un tramezzo, ha buttato giù una parete,
ha chiuso qualche porta, ha aperto qualche finestra,
ha ristrutturato l’ambiente, insomma,
come consiglia l’architetto di Worming House.
È soddisfatto, il verme,
ma non sa che sai, dalla pancia gonfia del gatto,
che è giunta l’ora
dell’antielmintico.

oOo

Non si può escludere a priori che anche il verme possa esser vittima di un delirio di onnipotenza analogo a quello umano. Né che soffra di individualismo, specie se è solitario. Si sa, infatti, che più si è individualisti più si conduce una vita di merda.
Sul tema, da La robustezza come bisogno, di Uriel Fanelli (col quale ci scusiamo per alcune modifiche, peraltro non sostanziali), trascriviamo le righe seguenti.
"Quasi nulla della nostra sfolgorante esistenza è davvero merito nostro. A parlare con qualcuno, oggi, fa tutto da sé. Studia come se non ci siano professori o come se il ruolo di questi ultimi sia marginale: si laurea 'per merito suo'. Al lavoro, non conta che ci siano i colleghi, che usi infrastrutture mantenute da altri, che la brillante email che ha mandato la si debba prima di tutto al gruppo che tiene in piedi Exchange e che i sistemi siano stati creati da qualcun altro. E lui stesso è nato sapendo come scrivere la sua brillantissima email, senza che qualcuno glielo abbia insegnato.
L'uomo del passato si riteneva fragile. Cercava il conforto e la compagnia dei suoi simili. Di fronte ad un fuoco, si metteva a gridare. Di fronte ad un ladro, urlava. E - viceversa - accorreva quando sentiva urla e grida. Sentirsi fragili e potenziale preda di disgrazie, incidenti, malattie, crimini era normale e - per certi versi - molto razionale. Quanti di noi oggi andrebbero a lavorare in filiera, sapendo di avere il 100% di probabilità di perdere due dita in quattro anni? È forse perché gli incidenti e le relative mutilazioni erano così frequenti che un tempo le persone si sentivano più fragili?
Eppure oggi non siamo certo più robusti.*
Tuttavia, nel periodo dell'individualismo, si vuole - è importante ripeterlo, si vuole - credere che l'individuo in sé origini se stesso. Non è sempre stato così: ci sono state fasi in cui il nome dell'individuo conteneva quello del clan o quello della tribù, fasi nelle quali la singola individualità era inscindibile dalla classe, dal ceto o dalla nazione di appartenenza, fasi in cui l'identità era data dalla professione, eccetera.
'Io non ho bisogno degli altri per essere quello che sono' è il punto di forza moderno. Quanto sia ridicola questa credenza, nel momento in cui la gente va a farsi disintossicare dall'internet addiction non è cosa che voglio commentare".


* E ci stiamo vieppiù indebolendo, "visto che - continua il buon Uriel - ho girato per i primi 20 anni della mia vita automobilistica su una vettura senza airbag, cinture, abs, seggiolini e tutto quanto oggi si considera il minimo necessario per 'la sicurezza'. Ho bevuto acqua piovana o acqua da fontane più o meno sicure, mangiato frutta raccolta da terra, [...] mi hanno morsicato cani, mi sono arrampicato su alberi alti 15 metri e insomma ho fatto tutte quelle cose che oggi sono considerate mortali". Anche chi scrive, non più di qualche decennio fa, in Tunisia, sapeva bene che il formaggio migliore era quello ricoperto di mosche. Il pane si vendeva lungo il marciapiede, su qualche seggiola o su una panca; e la pagnotta te la sceglievi previo accurato palpeggiamento di tre o quattro consorelle.

Ci siamo indeboliti, quindi. Ma allora perché siamo così individualisti, se è vero che l’autosufficienza esige una certa ‘robustezza’? Non si può infatti pensare casuale la correlazione tra individualismo e «star bene» in salute. Tant'è che, "arrivati ad una certa età, sopravveniva la consapevolezza di essere fragili. Di avere bisogno degli altri. Di dover chiedere. Di non essere sufficienti". Ma oggi non è più così, almeno per la maggior parte di noi occidentali che abbiamo ripudiato la vecchiaia, sicché, pur essendo assai meno robusti dei nostri antenati, che pur individualisti non erano, tali siamo.
E come si conciliano, individualismo e debolezza?
Grazie ai soldi. Non si può infatti pensare casuale la correlazione tra individualismo e «star bene» in denaro. I soldi significano meccanizzazione e questa significa spersonalizzazione. La dipendenza dall'altro (genitore, fratello, parente, amico, compaesano, ecc.) si avverte meno, quando l'altro è, se non proprio una macchina, uno sconosciuto, un anonimo, qualcuno o qualcosa che si cela dietro una sigla. Basta pagare la bolletta e - come per incanto - la dipendenza si tramuta in autosufficienza  La debolezza si fa ‘robustezza’.
Robustezza soggettiva, illusoria, cerebrale, che nulla ha da spartire con la vigorìa del corpo, ma che non perciò ci esime dall’individualismo. Robustezza dell’anima, perché solo l’anima è individuale, non dello spirito
Non si può infatti pensare casuale la correlazione tra individualismo ed ateismo. Chi non ha bisogno dell'altro, perché - pagandone le prestazioni - può sempre sostituirlo con qualcun altro o con una macchina, non ha bisogno neppure di Dio.
Perciò sono detti «beati» i poveri, i deboli e insomma i "poco robusti". E beati pure i vermi, individualisti e no, così facili da schiacciare.

oOo

Il mondo è un animal grande e perfetto,
statua di Dio, ch’Il lauda et Cui simiglia.
Noi siam vermi imperfetti, vil famiglia
ch’intra ìl suo ventre abbiam vita e ricetto.