Amore.

Amore come cura. 
Cura come sollecitudine ("curarsi di") e come terapia ("curarsi con").
Ci curiamo, ovvero ci sono care le cose di cui ci "importa" (care, in inglese) e che, se ci venissero a "mancare" (carecer, in ispagnolo), soffriremmo. Ad onta di quanto scritto qui, le carezze sono cose la cui carenza può far soffrire. La sola cura - se riusciamo a dilatare il termine oltre l'accezione comune, limitata all'elemosina - è la carità. Non a caso Benedetto XVI specifica che Deus caritas est.

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Nell'enciclica suddetta ci si sofferma sulle sfaccettature semantiche dell'amore. 
"Si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell'amore per il prossimo e dell'amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati, però, l'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono.
[...] All'amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s'impone all'essere umano, l'antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già in anticipo che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all'amore - eros, philia e agape - gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini".
In dettaglio, circa la trilogia classica il pontefice scrive quanto segue.
"Come deve essere vissuto l'amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l'«amore». Dapprima vi è la parola dodim, un plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita da ahabà, vocabolo che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è reso col termine di simile suono agape, che, come abbiamo visto, diventò l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. [...] In realtà eros e agape - amore ascendente e amore discendente - non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la grande promessa di felicità - nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà «esserci per» l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l'uomo può - come ci dice il Signore - diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv VII, 37-38). Ma, per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr Gv XIX, 34)".
Accanto alla triade greca eros, philia ed agape, vuoi in opposizione e vuoi in complementarietà, il fine teologo che è J. Ratzinger pone la latina caritas.
"«Se vedi la carità, vedi la Trinità», scriveva sant'Agostino. [...] Fin dall'Ottocento, contro l'attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un'obiezione, sviluppata poi con insistenza soprattutto dal pensiero marxista. I poveri, si dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità - le elemosine - in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. [...] L'amore ha bisogno anche di organizzazione, quale presupposto per un servizio comunitario ordinato. La coscienza di tale compito ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai suoi inizi: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At II, 44-45). Luca ci racconta questo in connessione con una sorta di definizione della Chiesa, tra i cui elementi costitutivi egli annovera l'adesione all'«insegnamento degli apostoli», alla «comunione» (koinonia), alla «frazione del pane» e alla «preghiera» (cfr At 2, 42). L'elemento della «comunione» (koinonia), qui inizialmente non specificato, viene concretizzato nei versetti sopra citati: essa consiste appunto nel fatto che i credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più (cfr anche At 4, 32-37)".
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Alla luce di quanto precede, si potrebbe dire che la visione classica dell'amore si limiti alla dimensione individuale del singolo, escludendo quella collettiva. Il che, se per collettività intendiamo una società più estesa di quella derivante dai legami di sangue (familia, gens o addirittura civitas), è vero. In questo senso la caritas cristiana, indiscriminata com'è, appare molto 'moderna' e molto 'occidentale'.* D'altro canto la sua affinità con l'agape, più che con la philia, è suscettibile di autentici sbocchi metafisici.
Per chiarire il senso di questo accenno al sovrannaturale, precisiamo che la tripartizione dell'amore in agape, philia ed eros riecheggia quella tra spirito, anima e corpo. Attenendosi a questa prospettiva, non è difficile rapportare l'agape al nous, la philia alla psyche e l'eros al soma, in un crescendo di selettività. Quest'ultima caratteristica, infatti, ci pare quella che più differenzia i tre componenti l'essere umano, nel loro andare dall'universalità onnicomprensiva dello spirito alla discriminazione - per esempio, estetica - del corpo. Anche per quanto riguarda l'anima-psiche, uno può essere 'filippo' (o ippofilo) finché vuole, ma certo non per questo amerà indistintamente tutti i rappresentanti la specie equina. Idem, circa la filantropia (che, se fosse davvero indirizzata alla totalità del genere umano, sarebbe 'agapantropia').

* In effetti la pietà (o com-passione) nei confronti delle creature, non solo quelle umane, viene proposta anche altrove, per esempio nel buddismo. Tuttavia, per servirci di una frase fatta, l'atteggiamento orientale sembra più simile ad un «vivi e lascia vivere», anziché ad un «aiuta a vivere» (sorta di 'interventismo' cristiano che, pur encomiabile da un lato, suscita qualche perplessità dall'altro). Comunque sia, va pur detto che una visione del mondo diversa da quella più diffusamente contemporanea può riuscire assai ostica: basti pensare all'esordio del quinto capitolo del Tao Te King ("Il Cielo e la Terra non sanno la carità e tengono le diecimila creature per giocattoli").

Per concludere, una volta stabilita l'equiparazione - nel segno dell'universalità e perciò dello spirito - tra agape e caritas, ci permettiamo di indugiare su un celebre ed enigmatico passo evangelico (Gv. XXI, 15 - 17), reso addirittura incomprensibile dalla confusione, dovuta alla povertà del nostro lessico, tra "amare" e "voler bene" nella traduzione italiana e tra "amare" e "diligere" in quella latina, forme verbali che si direbbero differire tra loro solo quantitativamente e che per giunta erano omologate nelle prime due versioni sottostanti.*
L'edizione CEI del 1974 è la seguente. «Gesù disse a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". [...] Gli disse di nuovo: "Simone di Giovanni, mi ami?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". [...] Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi ami?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo"».
L'edizione CEI del 2003 è la seguente. «Gesù disse a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". [...] Gli disse di nuovo: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". [...] Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene"».
L'edizione CEI del 2008, più aderente al testo latino, è la seguente. "Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». [...] Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». [...] Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene»".
 
* In latino (ed in greco), le prime due domande di Gesù sono "diligis me? (agapàs me)" e, la terza, "amas me? (filèis me)"; la risposta di Pietro è sempre la stessa, cioè "amo te (filòo se)".

Come evitare di pensar che Pietro, all'inaudita richiesta di Gesù per un amore sovrumano, abbia umilmente e testardamente precisato d'esser capace solo di amore umano? E che Gesù, dopo due tentativi infruttuosi, si sia - per così dire - rassegnato?