È una costante tanto negli ambienti cristiani, siano questi ufficiali o alternativi, quanto in certi ambienti del pensiero tradizionale ed in quelli che potremmo chiamare «neo-advaitisti», un certo disprezzo, quando non palese ostilità, verso ogni atteggiamento di devozione, cioè verso la via della bhakti.
È un vero "segno dei tempi" il sottovalutare la strada più breve ed efficace per evocare ed invocare il sacro, la via più semplice per situarsi in presenza di Dio, il cammino più adeguato per la maggior parte dei viventi in questo tempo di ombre.
Si dimentica spesso che Shankara, jñani supremo dell'induismo, compose inni a Shiva e che un Hafiz o un Rumi, così pronti a sminuire le forme a beneficio dell'essenza, non trascurarono mai le loro preghiere quotidiane. Più modernamente Nisargadatta, benché jivan-mukta, non pertanto evitava le penitenze rituali.
In questi ambienti si riscontra un certo orgoglio (molto abituale negli occidentali moderni), reso evidente dalla pretesa di arrivare al più alto senza passare per il più basso, ovvero dalla presunzione che, grazie al nostro "progresso", noi occidentali non necessitiamo più di lavorare, sacrificarci, pazientare, cercare e disciplinarci, per raggiungere la deificazione. Tutto ciò occorreva solo agli antichi, che evidentemente dovevano essere un po' rozzi. E così succede che, per aver sognato le più alte cime della «liberazione in vita», spesso neanche si arriva alla salvezza. In altre parole, chi vuole il dieci neppure arriva all'uno; e per giunta sottovaluta quelle persone devote che, almeno, sono arrivate al cinque di una vita umile e santa.
Non dimentichiamo che l'orgoglio è considerato in tutte le tradizioni come il più grave dei difetti. Non dimentichiamo neanche che, a parte la "liberazione in vita" (jivan-mukti), la tradizione indù contempla altre due forme di liberazione: videha-mukti o "liberazione nel momento della morte" e krama-mukti o "liberazione negli stati successivi alla morte" (questa essendo quanto noi cristiani chiamiamo salvezza, o salvazione).
Shankara, una delle menti più brillanti che il mondo abbia conosciuto, interprete delle Upanishad e creatore del sistema non duale del Vedanta, fu un devoto cultore di immagini sacre, pellegrino in luoghi venerati, visitatore di templi e di altari, cantore e compositore di inni devozionali. In una famosa preghiera si scusa per esser costretto a visualizzare in una forma Chi non è limitato da forma alcuna, per lodare con inni Chi sta oltre la portata delle parole, per venerare in altari sacri Chi è onnipresente.
Ma se perfino lui che «conosceva» non poté resistere all'impulso di amare (e l'amore esige un oggetto di adorazione, oggetto da concepirsi in parola o in forma), quanto maggiore dovrà essere tale necessità per quella maggioranza a cui è molto più facile adorare, anziché conoscere? Così il saggio accetta l'inevitabilità dell'uso di immagini sacre, sia verbali che ottiche, e le giustifica come concessioni che Dio stesso vuole fare alla nostra natura mortale. È Dio stesso ad "assumere l'aspetto con cui i Suoi adoratori Lo adorano", facendoSi come noi siamo affinché noi si possa essere come Egli è.
Inoltre, nonostante il suo precocissimo raggiungimento dell'illuminazione, Shankara non volle rinunciare ad un maestro spirituale. La cosa può sorprendere, ma la spiegazione risiede nel fatto che il discepolo, nonostante l'eccellenza del suo caso, doveva ancora osservare una disciplina di carattere confermativo, implicante perfezionamento e maturazione, disciplina che solo un maestro compiutamente realizzato poteva prescrivere, oltre a garantire assistenza e sostegno. Senza questa prassi sussistono pericoli, specie se l'apertura intuitiva è sopravvenuta senza esser stata preceduta dagli esercizi spirituali richiesti. In generale le aperture intuitive, qualunque sia la loro importanza ed il momento della loro produzione, se non sono seguite e sostenute da un regime specifico e da un lavoro adatto, possono alterarsi e perfino chiudersi.
Potrebbe citarsi a questo ultimo proposito, dal lato islamico, un caso perfettamente paragonabile a quello di Shankara, quello del "maggiore dei maestri spirituali", Muhyi-din ibn Arabî che, adolescente, avendo chiesto e ricevuto del suo primo maestro un'indicazione di lavoro metafisico, ottenne la sua "apertura" già nella prima notte di isolamento (khalwa). Orbene, dovette recarsi sotto la direzione di un altro maestro, perché la sua condizione spirituale comportava rischi dovuti alla carenza di preparazione. Ed allora si giunse a questo, che ibn Arabî era discepolo di questo nuovo maestro per un aspetto, ma ne era a sua volta maestro per un altro aspetto, ciascuno di essi ubbidendo all'altro per la parte di disciplina che gli era necessaria.
In occidente spesso si suppone che le dottrine non duali escludano completamente i valori del culto e la relazione 'io-Tu' tra l'uomo e Dio, assumendo che l'ideale spirituale supremo sia l'assorbimento totale e la sparizione della persona umana nell'unità indifferenziata. Questa impressione deriva dalla mancata comprensione dell'insieme della struttura umana con le sue necessità a differenti livelli; mancata comprensione anche del punto di vista religioso, mancata comprensione in definitiva delle bellezze dell'anima umana.
Come essere spirituale ed intellettivo, l'uomo può riconoscere se stesso in quanto Atman, l'entità infinita che immagina Se stessa finita. Ma, come essere d'anima e di ragione, l'uomo deve rapportarsi con Dio come ad un Essere differente da se stesso.
Così, tutta la non dualità di Shankara non gli impedì di scrivere un numero ragguardevole di inni nello stile bhakti (o devoto) che, con un mero cambiamento di nomi, potrebbero esprimere perfettamente il culto di un teista cristiano, ebreo o islamico; e neppure gli impedì di trovarsi oppresso dal dolore e dalla tristezza, dopo la morte di sua madre, e di celebrarne i riti funerari infrangendo la regola del sannyâsin. Ogni livello ha il suo funzionamento e le sue leggi, ed anche la più alta realizzazione metafisica non impedisce che la personalità ed i sentimenti abbiano il loro corso e le loro peculiarità, così come non impedisce che il corpo abbia le sue particolarità, abbia bisogno di alimento e soffra malattie.
Analogamente Shankara pregava la Shakti, l'energia mediatrice, dicendo: "Io ti imploro, Lakshmi, affinché mi guardi coi tuoi occhi di grazia, come di sfuggita, e ciò mi basterà per ottenere i tuoi favori, Madre mia". Aggiungiamo che il culto della Shakti fu istituito dallo stesso Shankara nei suoi monasteri (cosa tanto più notevole in quanto l'advaita-vedanta procede per eliminazione, laddove il metodo sháktico, invece, per sublimazione). Lakshmi è la dea della bellezza e della felicità; Mahalakshmi, la Lakshmi Suprema, è la fonte di tutte le benedizioni, equivalente quasi esatto, per il cristiano, della Vergine María. Secondo gli advaitisti è solo per la grazia di Mahashakti che l'uomo può superare la Maya cosmica e riuscire a farsi "Uno senza due", cioè il non dualismo e quindi l'advaita. Si vede pertanto la necessità della bhakti anche in quest'ambito, una bhakti che potremmo denominare mariana, in linguaggio cristiano; non è infatti casuale che proprio nella stessa epoca san Bernardo instaurasse il culto della Vergine María nei suoi monasteri.
Ancora Shankara ebbe a dire che "tra tutti i mezzi che concorrono alla liberazione, è alla devozione, bhakti, quella a cui spetta il posto d'onore", cosa peraltro raccomandata anche dalla nostra dottoressa mistica santa Teresa d'Avila.
Infine, osserviamo che la mentalità strettamente religiosa, exoterica, sospetta necessariamente delle "pretese" metafisiche, perché sembrano suggerire l'esistenza di un circolo esclusivo di "eletti" esoterici, affrancati dalla vita e dalla disciplina normale della Chiesa corrispondente. Coloro che si definiscono «illuminati» sono esistiti con relativa frequenza dentro la Chiesa cristiana, come in tutte le altre, e si sono caratterizzati soprattutto per il loro arrogante orgoglio spirituale. Non a caso il segno più infallibile di quell'orgoglio è la pretesa di esserne privi. Ma l'essenza della comprensione metafisica è nell'esserle assolutamente estranea ogni idea di pretendere qualcosa. Semplicemente, non si può dire che io ho compreso la Suprema "Identità" senza esprimere una totale contraddizione perché è il Se-stesso e non l'io che comprende, ed il Sé non è proprietà di nessuno. Ripetiamo di nuovo che l'ego deve e può solo adorare. La ragione, il sentimento e la sensibilità devono rivolgersi sempre al Sé come a Dio, venerandoLo come qualcosa di differente e di infinitamente superiore. Gesù, Dio incarnato, andava in solitudine al tempio a rendere il culto, e non semplicemente per dare un buon esempio ai discepoli.
In definitiva la supposta incompatibilità di jñana e bhakti o, in linguaggio occidentale, di gnosi e fede non è che l'incomprensione di quanti non hanno approfondito né l'una né l'altra.