Abbiamo già parlato della polisemia del termine «usura», le cui accezioni sono però tutte riconducibili all'ineluttabilità dello scorrere temporale ed ai conseguenti tentativi di limitarne i danni. Ora, come è evidente che l'uso di qualcosa deteriori quest'ultima, è altrettanto evidente che il mancato uso ha, alla lunga, lo stesso effetto. I talenti di cui disponiamo, insomma, siano essi di natura letteralmente monetaria o metaforicamente caratteriali, vanno utilizzati.
Il guaio comincia quando, invece di assoggettarsi all'inevitabilità del decadimento, si cerca non solo di contrastarlo (il che, entro certi limiti, sembra anche legittimo), ma addirittura di trarne vantaggio. Vantaggio terreno, s'intende, stante l'indiscutibile vantaggio ultraterreno derivante dall'accettazione della caducità delle cose.
Del suddetto vantaggio terreno, esclusivamente terreno cioè, l'usura (intesa come «prestito ad interesse [esorbitante]») è un buon esempio. Si sottolinea l'aggettivo precedente perché un minimo di buon senso pretende che qualsiasi investimento (finanziario e no) venga attuato in vista di un eventuale guadagno, tutelandocisi pertanto finché possibile dai rischi e dagli incerti dell'esistenza.*
Guadagno, ma est modus in rebus, ovviamente. Quello dei cosiddetti «mercati» contemporanei appare spesso un po' smodato, invece. E non da oggi, visto che già due secoli or sono il Belli criticava l'avidità bancaria, in questo caso dei Rothschild, nei termini seguenti. "Er grann’abbreo Roscilli, | ‘ché ar Monte ce ballaveno li grilli, | ha dato ar Papa imprestito un mijone, | cusí oggnuno averà la su’ pensione. [...] Perantro è un gran miracolo de Dio | l’aver toccato er core d’un giudìo | che L’ha ajutato ar sessant’un per cento".

* L'unica eccezione a quanto sopra riguarda, comprensibilmente, il prestito ai proprii familiari. In questo senso la nostra Bibbia (Deuteronomio, XXIII, 20-21) vieta il prestito ad interesse verso il fratello e lo permette solo nei confronti di un non meglio identificato «straniero». Prestito ad interesse, si ripete, ma ad un interesse ragionevole.

Fin qui, ebrei e cristiani. Ma l’usura, a detta degli studiosi musulmani, è un reato/peccato proteiforme, non circoscritto nell’ambito della sola avarizia (o avidità). Secondo alcuni, essa è addirittura «la madre di tutti i vizi», potendo l’usura tramutarsi di volta in volta in superbia, invidia, avarizia, gola, accidia, ira e lussuria (insomma in tutti i sette «vizi capitali» del catechismo).
Giocando sul doppio senso dell’inglese luxury, che è sinonimo ed omofono sia di lust (“lussuria”) che di luxe (“lusso”), c’è pure chi propone l’equazione «usury = luxury». Al riguardo si arguisce che, come la lussuria, moltiplicando il partner erotico, esautora, svilisce ed umilia il nobile (e rassicurante, soprattutto se si è mogli) concetto di un partner unico, sposato in modo legittimo e sacro, così il lusso, reiterando le pur sempre limitate varietà di piacere, finisce col vanificare il piacere stesso. Sul tema, potrebbe non esser superfluo ricordare che la lussuria comprende anche le fantasticherie erotiche e, nel maschio, l’ammirazione di ciò che, nella femmina, è esibizione. Detto ciò, che il rilassamento dei costumi [col conseguente calo degli slip] femminili sia opera diabolica è dimostrato, in maniera alquanto insolita, da un aneddoto relativo al Profeta, che era solito, davanti ad apparizioni dalla natura dubbia, far denudare la più avvenente delle sue mogli, provocando con ciò l’immediata scomparsa delle sole epifanìe angeliche.
Tuttavia circa l’usura in senso stretto, intesa come «prestito ad interesse [eccessivo]», per quanto la sua condanna morale risalga alla più remota antichità, trovandosene traccia perfino nei testi vedici, e per quanto anche la legislazione sociale si sia spesso affiancata alla normativa etica,* si direbbe che oggi solo all’Islam si debba la denuncia più coerente, più drastica e più duratura, di quanto appare come un’autentica «satanizzazione».

* Si pensi alla lex Genucia (340 a.C.), che testimonia la presenza dell’usura anche nella severa Roma repubblicana. Ma è il medio evo, l’età dell’oro ecclesiastica ed europea, il più accanito fustigatore del delitto (tant’è che, ancora nel 1311, Clemente V si permette il lusso di dichiarare nulla ogni legislazione sociale in favore dell’usura). Dopo il «millennio delle candele», e prima del «secolo dei lumi», Lutero e Calvino segnano l’inversione di tendenza. L’ultimo sussulto della Chiesa risale al 1891 ed a Leone XIII (che, nella Rerum novarum, ne parla in termini di “demonio divoratore”). L’Islam, fedele all’immagine che dell’usura offre il Profeta (“ve ne sono 73 tipi, il meno esecrabile dei quali è paragonabile all’adulterio con la propria madre”), ne associa il polimorfismo a tutte le patologie psichiche e somatiche possibili, fino ad affermare che “un’ipoteca sul futuro, fatta per saldare un debito del passato, è l’enfiagione [cancerosa] di un bubbone maligno”. Se è vero che «enfiagione» ed «inflazione» coincidono, la mente va a tutte le svalutazioni possibili, non esclusa quella genetica (che, tra cloni e replicanti, in breve riattualizzerà il quesito medioevale circa la presenza dell’anima in chi non può definirsi «umano»). Tutto ciò, a non parlare delle pur affascinanti angolazioni di veduta che prospettano l’usura come una sorta di tesaurizzazione del tempo, per cui il lucrare sul differimento temporale comporterebbe la consapevole infrazione al monito coranico (CIII, 1-2) che vuole l’uomo perdente, nei confronti del tempo. In effetti, dire che «il tempo è denaro» significa più o meno bestemmiare, perché, se lo spazio è in qualche modo [e nei limiti in cui ci appartiene] monetizzabile, il tempo non lo è affatto. Inoltre, sempre secondo l'epistemologia musulmana, alla tesaurizzazione di quest'ultimo, essendo tali coordinate tra loro inversamente proporzionali, corrisponderebbe specularmente il depauperamento dello spazio, sia nel senso della riduzione delle distanze che in quello della spoliazione (e dell’inquinamento) ambientale.

Un'altra lettura abbastanza inedita dell'usura è quella che ne fa un corrispettivo della moderna democrazia, interpretata come deterioramento dell'autorità tradizionale, ovvero normale, vale a dire "a norma [di Legge]".
Sintomaticamente, infatti, è solo da ambienti musulmani che ancor oggi si leva la condanna simultanea dell’usura e della democrazia [moderna], accomunate da una stessa inflazione (del voto questa, concesso in base all’età anagrafica e a prescindere da quella mentale, e della moneta quella, sostituita da un pezzo di carta, cambiale o banconota che sia) e da una stessa svalutazione e svalorizzazione di valute e di valori. Circa la democrazia, va inoltre aggiunto che il punto di vista islamico, come ogni punto di vista autenticamente religioso, contempla la delega del potere solo dall’alto. Tuttavia, sebbene una delega che venga dal basso appaia, sia al musulmano d’oggi che al cristiano di ieri, se osservanti, una palese incongruenza, chi se la sentirebbe di dire altrettanto, in una moderna democrazia? Dal laico al credente, sicché, oggi [quasi] tutti gli elettori di uno stato democratico considerano un’ovvietà la legittimazione del potere mediante un indiscriminato voto popolare.
Per contro, potendosi riformulare l’affermazione relativa all’ovvietà della legittimazione del potere mediante un indiscriminato voto popolare dicendo che oggi è legittimo quel che ieri era illegittimo, il che rappresenta un’ovvietà anche in ambiti diversi da quello politico, potrebbe non esser del tutto illecito dedurre che domani sarà legittimo quel che oggi non lo è ancora. E potrebbe trattarsi di un domani abbastanza incipiente, se è vero che la democrazia intesa nell’accezione attuale risale ad appena due o tre secoli or sono.
Sembra doverosa, pertanto, l’esclusione di Tucidide dal novero dei precursori dell’odierna democrazia europea. Benché meglio classificabile come «oligarchia allargata», la pur limitata democrazia ateniese dell’epoca viene infatti definita (Storie, VI, 89, 6) “follia collettiva” (omologoumène ànoia). In realtà il modello tucidideo è quello di Pericle, un regime “democratico a parole ed aristocratico nei fatti” (ivi, II, 65, 9). L’esser peraltro proprio questo il regime contemporaneo più diffuso, un regime cioè democratico in verbis ed aristocratico in factis (sebbene di un’aristocrazia di portafogli, anziché di sangue, e pertanto di un'oligarchia, se non di una cachistocrazia), è cosa abbastanza singolare.
Invece, come nei confronti della democrazia, anche verso l’usura, finché si mantiene nei limiti del «prestito ad interessi ragionevoli», il mondo cristiano attuale si comporta come quello laico, talché l’esistenza di una banca che si definisce «cattolica» non scandalizza più nessuno (a differenza di quanto accade ai banchi islamici, costretti a tortuosi, ma spesso inutili, espedienti per aggirare il problema).
Eppure parlare di usura è parlar di debiti, quegli stessi debiti di cui, nel Pater noster, senza renderci conto della divina ironia, chiediamo la cancellazione nella misura in cui noi stessi li cancelliamo ai nostri debitori.
Non basta. Sì è detto che la condanna musulmana della democrazia si appaia a quella dell’usura, ovvero dell’economia moderna,* perché uno dei cosiddetti «cinque pilastri» della religione coranica, la zakât (il prelievo della decima), è praticabile solo se disposta da un governante legittimo (il khalifah). All’Islam più intransigente ripugnano infatti a) l’essersi la zakât trasformata in un’elemosina discrezionale che, per quanto doverosa, non soddisfa l’obbligo giuridico e b) il consistere il prelievo fiscale odierno, benché ormai universalmente applicato, in un balzello disposto da un governo illegittimo che, pertanto, è privo di ogni connessione oltremondana.

* Per non appesantire il discorso, d’ora in avanti si eviterà di posporre ai termini il cui etimo risale alla classicità l’aggettivo «moderno» o «moderna» (suffisso che, per il mondo islamico, equivale esattamente al prefisso «pseudo»); tale aggettivo andrà comunque sottinteso.

Ma è l’usura finanziaria (riba’), in special modo, quella sottoposta alle critiche più severe. E non solo per il reiterato divieto coranico (ad esempio II, 275 e III, 130), ma soprattutto per la peccaminosità aggiuntavi dall’uso della moneta cartacea. La shari’ah (o la legislazione sociale islamica), prevedendo l’uso esclusivo del dinar d’oro e del dirham d’argento, pone perciò ipso facto in stato di peccato ogni musulmano [osservante] contemporaneo. Questa, che può sembrare una questione meramente formale, riveste invece grande importanza simbolica, derivante dall’attribuzione tradizionale (particolarmente sentita dai musulmani indiani e indonesiani) dell’oro alla casta sacerdotale e dell’argento alla nobiltà di sangue della famiglia reale (e conseguentemente del governo).
Il deprezzamento della moneta si configura insomma come un’autentica insubordinazione,* insubordinazione che, benché metaforica, non è perciò priva di effetti letteralmente concreti. Di insubordinazione in insubordinazione, infatti, l'egemonia cala sempre più in basso, dall'autorità religiosa al potere amministrativo/militare fino alla totalmente e totalitariamente delegittimata dittatura finanziaria: in termini orientali, non alieni all'Islam locale, prima dal sacerdote al guerriero e poi dal mercante al servo, fino al «senza casta» (senza patria, senza famiglia e senza passato) che è ormai ciascuno di noi moderni.

* Sul tema si consideri il legame tra svalutazione (o contraffazione) della moneta ed ateismo. In questa prospettiva vediamo Diocleziano sostituire il rame all'oro, Filippo «il bello» alterare la lega con metalli vili, i banchieri fiorentini inaugurare (con il cosiddetto «Rinascimento») la lettera di cambio, i rivoluzionari francesi comminare la pena capitale a chi rifiuti la carta straccia dell'assignat e finalmente Nixon dichiarare l'inconvertibilità aurea del dollaro. Circa Filippo IV, il saccheggiatore e distruttore dell’Ordine del Tempio, ricordiamo che Dante lo bolla (Purgatorio, XX, 91-93) come “il novo Pilato”, spintosi fino a “portar nel Tempio le cupide vele”.

C'è di più, perché la legge islamica, imponendo un abbigliamento femminile castigato e vietando al maschio di indossare manufatti contenenti oro, di fatto scoraggia la tesaurizzazione del nobile metallo. Inoltre la diffida ad abbellirne i luoghi di culto, unitamente alla ben nota iconoclastia, fa sì che effettivamente l’utilizzo dell’oro si restringa al solo conio monetario. Tradizionalmente, infatti, il mondo musulmano è celebre, a partire dal settimo secolo, per la sua larga disponibilità di valuta pregiata.
Dal settimo secolo fin quasi ai giorni nostri: perfino Garibaldi pretese che il finanziamento inglese della spedizione dei Mille gli fosse corrisposto, prima dello sbarco nel protettorato britannico di Marsala, in piastre d’oro turche.
È questa una delle ragioni che hanno fatto la fortuna dei mercanti arabi, in ossequio al dettato profetico che incoraggia il commercio (dichiarato halâl, cioè “permesso”) e vieta l’usura (definita harâm, “illecita”). La globalizzazione delle merci è infatti già attestata lungo tutto il medio evo occidentale,* laddove la globalizzazione dell’usura coincide, secondo più d’una madrasa (una scuola cioè d'esegesi coranica che non disdegna l’attenta osservazione delle cronache mondane), con la «globalizzazione» propriamente detta.

* La moneta araba, quindi quella «di buona lega», è stata trovata nei posti più impensati, dalla Scandinavia all’India e dalla Russia alla Cina (oltre che nell’intera Europa, ovviamente) e datata tra il settimo ed il decimo secolo. Solo l’undicesimo secolo vede montare, con l’avvento delle Crociate, la diffidenza reciproca tra cristiani e musulmani. La «globalizzazione» dell’epoca permane, tuttavia, anche nei secoli a seguire, in tutta l’area africana, medio ed estremo orientale, indiana ed indonesiana.
Può avere qualche interesse aggiungere - grazie alla pagina relativa della Wikipedia - che "il dinar doveva pesare esattamente 4,25 grammi d'oro a 22 carati, con un titolo aureo cioè pari a 0,917, e che, sulla scorta del valore del dinar, il dirham argenteo doveva essere di 2,97 grammi di argento puro": tale rapporto, come quello tra il sole e la luna a cui s’è fatto cenno altrove, dava luogo a notevoli speculazioni cosmologiche. Il primo dinar fu battuto dalla Zecca (parola che deriva dall'arabo dar al-sikka, o "sede del conio") califfale nel 691 e si ispirò alla moneta aurea bizantina del denàrion (in latino, denarius), diventato equivalente del nòmisma cryson (in latino, denarius aureus). Analogamente, il dirham si rifece a quella argentea persiano-sasanide della drahm (termine che i persiani, a loro volta, avevano desunto dal greco drakmé). Infine, visto che parlar di soldi è parlare di folli e di falsarii, va detto che una moneta di rame di minor conto, il fals, non fu altro che l'adattamento del bizantino follis.



Bubbone maligno, l’usura, si diceva poc'anzi, che imbianca l’esteriorità di un sepolcro pullulante vermi interiori, che consuma di lenta consunzione sia il maxiconsumatore occidentale che il [giocoforza] miniconsumatore non occidentale, che arricchisce i già ricchi ed impoverisce i già poveri. Anche gli osservatori occidentali rilevano, ad esempio, che oltre cento paesi si trovano oggi in condizioni economiche peggiori di quelle di dieci anni or sono e che, sempre ad esempio, la famiglia media africana consuma oggi il 30% in meno di quanto consumava venticinque anni or sono. Ma questa consapevolezza, da parte di costoro, non si traduce in alcun addebito di responsabilità. D’altro canto, addebito a carico di chi? Sono sempre più le grandi imprese multinazionali e le forze economiche transnazionali (i cui profitti superano il prodotto interno lordo della maggior parte dei paesi del mondo e i cui movimenti rapidissimi sfuggono a qualsiasi condizionamento territoriale) a fissare, prive di vincoli e di responsabilità e in assenza di qualsiasi trasparenza, l’ordine del giorno della globalizzazione. Esse costituiscono dunque le più potenti forze politiche del nostro tempo che, in una sorta di «colpo di stato silenzioso», riducono di fatto lo Stato ad una pallida miniatura di se stesso.
Al riguardo basta osservare la crescente divaricazione della forbice dei redditi, che ha visto arricchire oltre misura i già ricchi, impoverire drasticamente i ceti medi e condannare i poveri all’accattonaggio. Ciò porta a chiedersi se si possa ancora parlare, per esempio, degli Stati Uniti come di una nazione. In altri termini, porta a chiedersi se il ricco di ogni altro angolo del pianeta sia più statunitense del povero di quell'angolo del pianeta chiamato «USA».*
A questo punto l’idea stessa di «globalizzazione» rappresenta un colossale equivoco, secondo l’Islam più avveduto, perché quanto potrebbe sembrare un’unificazione [nel segno del dollaro] è in realtà la parcellizzazione, lo spezzettamento, la polverizzazione di ogni struttura sociale (e pertanto sovraindividuale) tradizionale. Ciò premesso, si può ben dire che gli obiettivi finali della metastasi planetaria dell’usura sono la disperata solitudine e la solitaria disperazione di miliardi di individui, poveri o ricchi che siano, che venga loro imposta o che la impongano, perché “nessuno - recita il proverbio - è solo come l’usuraio”. Del resto il nostro Dante non si sarebbe espresso diversamente, se è vero che un processo di unificazione può darsi solo a partire dall’alto, da un principio unificatore, cioè, secondo la classica immagine del triangolo, che sia Uno (la base del triangolo simboleggiando la materia, la cui divisibilità è indefinita).

* Citiamo gli USA in quanto emblema dell'attuale way of life, ma la cosa vale per quasi ogni paese. Non a caso i governanti europei ci sollecitano senza tregua a considerarci sempre meno nazionalisti.

Espressa in termini numerici, la divisibilità sociale (come la schizofrenia individuale) è simboleggiata dalla regola che vuole qualsiasi frazione, per quanto minima, sempre ulteriormente riducibile, aggiungendo un'unità al denominatore (per cui 1/n diventa 1/n+1), senza perciò ridursi mai a zero, cifra che, designando l'assenza di quantità, non può essere impiegata per simboleggiare alcuna, sia pur infinitesimale, quantità. Questa osservazione matematica è applicabile anche in politica: riprendendo il simbolismo del triangolo, si può infatti aggiungere che qualsiasi unificazione che non miri all’unico vertice superiore (qualitativo, spirituale) è condannata a priori al fallimento. Unificare lungo la sola base del triangolo, simboleggiante la molteplicità (la quantità, la materia), unificare insomma nel segno del materialismo, significa invece frazionare (dividere, separare, divorziare, spezzare famiglie, comunità e nazioni) incessantemente. Ancora, e per finire, raffigurare nel triangolo l’unità in alto e l’indefinita serie dei numeri in basso (vale a dire lo spirito in alto e la materia in basso, perché «numerus - secondo san Tommaso - stat ex parte materiae») permette di definire ogni tentativo di unificazione attuato dal basso (dalla quantità, ad esempio di voti ottenuti) come un rovesciamento del triangolo.

oOo

Nell’Islam (e pertanto non solo in medio oriente, né in estremo, quindi non in contrapposizione all’occidente tout court) si pensa altrettanto: la globalizzazione, ovvero il tentativo di uniformare materialmente e materialisticamente, cioè esteriormente, ogni essere umano del pianeta, è l’esatto e puntuale contrario dell’ecumenismo.
Sull’aver poi l’ecumenismo fatto scortare il missionario dal soldato, non si può che tacere. Del resto il fenomeno del proselitismo è fenomeno relativamente recente, tipico delle tre religioni abramiche,* che ha soppiantato l’olimpica serenità del VIVI E LASCIA VIVERE con l’ansia ecumenica (se in buona fede) o globalizzante (se in mala fede) di esportare il proprio modus vivendi.

* Ci pare preferibile definire «abramiche» le tre religioni cosiddette «monoteiste», anche per via dell'assonanza col Brahma indù. Ad onta dell'apparente alfa privativo iniziale, ciò potrebbe contribuire a far vedere la più antica religione vivente come un "puro monoteismo" (in arabo, al-Ikhlas, che è il titolo della centododicesima sura).

In dettaglio, sul rapporto tra ebraismo ed islamismo va notata la comunanza tra il concetto di Ummah, o “famiglia [dei credenti islamici]”, e quello di ‘am Yisrael, il popolo di Israele ogni componente il quale considera se stesso parte del transnazionale qahal qadosh, o “santa comunità”. Come l'ebreo, ciascun musulmano è membro di una comunità in cui le differenze etniche, linguistiche e politiche sono virtualmente scomparse. A mo' d'esempio, secondo un'indagine di qualche anno fa, l’80% dei musulmani britannici intervistati ha dichiarato di sentirsi prima e soprattutto musulmano. D'altronde qualsiasi buon cristiano, europeo, cinese o messicano che sia, dovrebbe dire altrettanto. Aggiungiamo un’osservazione finale circa il termine Ummah, quasi sempre reso con “comunità”, laddove è di vera e propria “famiglia” che si tratta (nell’arabo classico ummi essendo il nostro “mamma”, analogo al mummy inglese): ciò potrebbe fare della cristiana Santa Madre Chiesa, la cui centripeticità vaticana sembra differenziarla e dal giudaismo e dall’islamismo, il trait d’union tra questo e quello.
Intorno alla globalizzazione ed all’ecumenismo si può ancora osservare come l’ecumenismo, che uniforma spiritualmente ed interiormente, lasciando intatte le diverse peculiarità locali, non sia suscettibile di dar luogo ai particolarismi generati dalla globalizzazione, particolarismi che sembrano in effetti esser solo disperati tentativi di recuperare un’identità ed una patria (i.e. una “terra dei padri”).*

* A proposito di patria, e di chi tuttora viene spacciato per «padre della patria», val la pena di riportare la seguente affermazione, tratta dal mazziniano Dell’unità italiana: “Gli uomini che avversano il principio dell’educazione nazionale, in nome dell’indipendenza dell’individuo, non s’avvedono che sottraggono il fanciullo all’insegnamento dei suoi fratelli per darne l’anima e l’indipendenza all’arbitrio tirannico di un solo individuo, il padre”. Affermazione strampalata, perché non si capisce in virtù di cosa i fratelli debbano saperne più del loro stesso padre, ma previsione esatta. Ancora a proposito di patria, e perciò di educazione paterna (eventualmente delegata ai tradizionali depositarii della cultura, ovvero ai chierici), ricordiamo la «Legge Casati» del 1859, che decretò il monopolio governativo dell’istruzione e la soppressione di tutte le scuole locali, religiose e no. Bisogna infatti sapere che c'era una scuola in ogni piccolo centro dell’Italia pre-risorgimentale: scuole costose come quelle dei gesuiti, scuole gratuite come quelle degli scolopi (gratuite, ben più numerose di quelle dei gesuiti e annoveranti tra i loro alunni personaggi come Pascoli e Carducci), nonché una miriade di scuole sia urbane, nelle parrocchie, che rurali, nelle pievi, in cui si insegnava a leggere, scrivere e far di conto in sei mesi. Si dà in proposito il caso di Ferdinando IV di Borbone che, desideroso di verificare la bontà del metodo, nel 1786 volle presiedere, restandone ampiamente soddisfatto, una commissione esaminatrice. L’analfabetismo era quasi sconosciuto, insomma, all’epoca, se è vero che uno dei primi deputati savoiardi ad interessarsi dell’istruzione, Camillo de Meis, mezzo secolo dopo, ebbe lungimirantemente a dire che “se non averemo altri da mettere a luogo dei preti e dei religiosi, faremo senza e saremo ignoranti e rozzi e tutto”.

Ci si chiederà se sia mai possibile che l’usura si nasconda sotto tutte le nefandezze contemporanee. Ebbene, si deve rispondere che la prospettiva religiosa è privilegiata, nei confronti di quella laica, per la sua capacità di interpretare in modo organico fenomeni tra loro apparentemente eterogenei. A mo’ di esempio, è noto a) che la finanza internazionale (o, meglio, l’allora nascente oligarchia finanziaria transnazionale, se non l’allora rinascente oligarchia finanziaria apolide) sia responsabile del crollo di tutte le monarchie cattoliche europee,* ivi compresa quella zarista; b) che gli stati democratici odierni, anticlericali ed antimonarchici, abbiano fatto proprio lo slogan degli anarchici ottocenteschi, recitante che «alle budella dell’ultimo prete appenderemo l’ultimo re»; c) che i processi di «unificazione» nazionale pre- e post-rinascimentali si siano attuati costringendo in nuove entità territoriali popolazioni diverse tra loro per ceppo etnico, linguistico e, in una parola, per «radici», al solo scopo di frazionare l’ecumene ecclesiastica medioevale, ed infine d) che gli stati nazionali, assolto il loro compito di destabilizzazione, siano ormai superati (tant’è che, per esempio nell’Italia post-risorgimentale i cui «martiri risorti» convivono bellamente in quel di Bruxelles con l’«odiato nemico» di ieri, il tricolore simbolo dell’unità è oggi sventolato quasi esclusivamente dalla destra più reazionaria). È noto, ma non unitariamente significativo.

* Sul tema, sono noti i finanziamenti del banchiere svizzero Necker a Robespierre, di quello ebreo Schiff a Lenin e di quello austriaco Warburg a Kalergi (per l'esattezza, Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, al quale abbiamo fatto cenno anche qui, giapponese per parte di madre, ideatore e promotore di un progetto paneuropeo da attuarsi mediante la commistione razziale). Altrettanto noti sono quelli elargiti a Mazzini dal banchiere inglese Nathan, che aprì al fondatore della Giovine Italia ben più dei cordoni della borsa, rendendolo padre, tramite la figlia, di Ernesto Nathan, cittadino britannico eletto sindaco di Roma nel 1907.

Diverso è collocare il tutto nel quadro di un plurisecolare tentativo di rivolta contro l’autorità spirituale e, conseguentemente, contro il potere legittimo di un capo che via via piramidalmente si incarna in figure che vanno dal re fino al padre. In questo quadro, anche fenomeni apparentemente tra loro non collegati finiscono col mostrarsi solidali. Basti pensare all’evoluzionismo (tuttora indimostrato, ma contro il quale ormai combatte quasi solo l’Islam), con la sua negazione di un Padre creatore, o alla psicoanalisi, con la sua teoria del parricidio primordiale (e con l'immagine del «padre castrante»). E perché sorvolare sull’obsoleto «padre-padrone» di cui l’occidente, essendosene ormai «liberato», non parla più?
Una postilla necessaria, a quanto sopra, riguarda l’unicità della figura paterna, che è strettamente connessa all’idea di monarchia e, pertanto, di gerarchia. Questa, infatti, allude alla sacralità (ieròs) e quella all’unicità (mònos) dello stesso Principio. Ora, che qualsiasi società (dalla famiglia alla tribù, dal clan alla repubblica, dal circolo canottieri al football club) non possa fare a meno di una gerarchia purchessia, sembra evidente. Meno evidente, forse, che l’unicità del padre (del capo) ne implichi la stabilità, la permanenza [al potere] vita natural durante (ed oltre, essendo tale potere ereditario). Certo non evidente, invece, che la democrazia conduca all’anarchia, ovvero alla dissociazione sia della società nel collettivo che della società nel singolo. Ciò nonostante, il riferimento tradizionale alla struttura piramidale, ovvero gerarchica, arriva fino all’individuo: mettere in discussione il potere esteriore significa fare altrettanto con quello interiore (l’egemonikòn platonico, il principio unificatore della personalità).
Non ci vuole molta fantasia, in effetti, per sospettare tutte le ultime «conquiste» occidentali (dal divorzio all’aborto e dalla «liberazione» femminile all'esaltazione omosessuale) come facenti parte dello stesso attentato alla famiglia, che la si pensi ristretta o «allargata» fino a comprendere tutta la famiglia di Santa Madre Chiesa o l’intera Ummah (“famiglia dei credenti”, appunto, come già detto). Si potrebbe chiosare questa asserzione opponendo di nuovo globalizzazione ed ecumenismo e definendo quella «insubordinazione [al superiore interiore e, di conseguenza, a tutti i superiori esteriori]» e questo «sottomissione» (termine che, tra l’altro, è l’esatta traduzione di islàm). Testimoniano tale sottomissione gli innumerevoli passi (ad esempio paolini, ma soprattutto di san Pietro, il Papa per antonomasia) che intimano la sottomissione ad ogni istituzione umana.
Ciò premesso, per quanto il moltiplicarsi delle definizioni possa nullificare il significato della singola definizione, a questo punto non sarà superfluo chiedersi che cosa si intenda con «Islam» e con «occidente» (e pertanto con «globalizzazione»). Intanto va premesso che non sembra corretto il contrapporre o l'equiparare una religione o un'ideologia ad un territorio. Per quanto quest'ultimo si sia esteso, e continui ad estendersi (donde l'aggettivo «occidentalizzato»), non si può ignorare l'esistenza, all'interno di questo territorio, a) di individui di religione musulmana e di nascita non occidentale, ma di cittadinanza occidentale e b) di individui di nascita e cittadinanza occidentale, ma di religione musulmana. In assenza di dati statistici attendibili (stante l’assenza di censimenti in merito), il numero di costoro è stimato, nella sola Europa, intorno ai venticinque milioni. Questo, sorvolando sull’ancor meno facilmente quantificabile numero c) di individui di religione musulmana, di nascita e di cittadinanza non occidentale, ma residenti (più o meno stabilmente, più o meno ufficialmente) in occidente. In secondo luogo, andrebbe precisata meglio la «temperatura» (o il fervore ideologico) dei componenti l'Islam. Per esempio, potrebbe esser arduo affermare, senza tema di smentite, che il magrebino di cittadinanza italiana sia più «musulmano» di chi, italiano da generazioni, si è convertito all'Islam. Per contro, non sono certo pochi i casi inversi, sia di musulmani fattisi cristiani che di musulmani intiepiditisi o passati addirittura all’ateismo. Del resto, il più stridente motivo di contrasto tra le due religioni è puramente dottrinario, non incidente cioè sull’etica individuale e sociale.* Si potrebbe addirittura dire, blasfemamente, che la differenza tra le due religioni è in fondo cronologica, quasi dovuta all’usura del tempo, perché sei secoli or sono nessuno, in occidente, si sarebbe permesso di parlare di «laicità» dello Stato, dal momento che il “chi non è con Me è contro di Me” evangelico (Luca, XI, 23) non lascia adito a dubbi: tra Dio e Satana tertium non datur. Ne consegue, purtroppo solo per l’attuale ortodossia musulmana, che professarsi neutrali (laici, o addirittura agnostici) è ammettere di esser già passati all’Avversario (ash-Shaytan).

* “Dio è unico (Allahu ahad), Dio è l’assoluto (Allahu samad), non generato e non generante (lam yalìd wa lam yulàd)”. Di questi versi, i primi tre della già citata sura CXII, soltanto l’ultimo rende inconciliabili le due religioni, perché la differenza tra il precetto musulmano di uno stile di vita che trascenda, unendole, politica e religione e quello cristiano della separazione del regno di Dio da quello di Cesare è meno vistosa di quanto sembra: il dare a qualcuno una delle due facce d’una sola moneta non è che l’ennesima delle piccole ironie evangeliche. Per qualche esempio in materia, oltre alla già ricordata remissione dei debiti, si pensi alla prostituta alla quale, avendo molto amato, molto sarà perdonato; al ricco, per il quale l’ingresso in Paradiso viene detto più difficile del [pertanto non impossibile] transito di un cammello attraverso una cruna d’ago; infine, a ciascuno di noi che, essendo ogni passero tenuto in conto da Dio, è valutato la bellezza di “più di cinque passeri” (Luca, XII, 4). Non basta. Si deve aggiungere che, se la Chiesa si fosse deliberatamente disinteressata di quanto compete allo Stato, l’investitura imperiale in auge fino all'altro ieri rappresenterebbe un’incongruenza, incongruenza ancor più inspiegabile qualora ci si ponga nella prospettiva escatologica del cristiano di domani, che vedrà il Grande Monarca incoronato dal Papa Santo.
Se con «Islam», pertanto, si intende parlare di “religione”, «occidente» diverrà sinonimo di “ateismo”, il che fa di ogni arabo ateo un occidentale. Diciamo questo perché delimitare topograficamente l’Islam agli stati la maggioranza dei cui cittadini è di religione musulmana può esser utile solo per capirne il passato, non per immaginarne un futuro diverso da quello che, entro i prossimi sei secoli (per tornare alla differenza cronologica tra la religione musulmana e quella cristiana) è forse inevitabile. Il mondo arabo, insomma (che non coincide con l’Islam), oggi impersona solo il passato tradizionale, un passato che non è medio-orientale più di quanto fosse europeo (fino a sei secoli or sono), americano (fino a tre secoli or sono) o giapponese (fino a meno di un secolo fa).

Per capire il passato tradizionale di cui alla nota precedente, oggi, si può provare a condensarlo in parole che, per quanto stravolte dall’usura semantica, ancora forse sprigionano un po’ di fascino: frugalità, pudicizia, lealtà, abnegazione, virtù (non solo in senso botanico), obbedienza, povertà (in senso monastico e cavalleresco), rispetto, pulizia, ornamento (vale a dire equipaggiamento, divisa, uniforme come tonaca o come livrea), onere dell’onore ed onore dell’onere e, in definitiva, noblesse oblige. In alternativa, bisogna far ricorso all’etnologia.
Di questo passato tradizionale sopravvive ancora qualcosa, certo, ma non ci si possono fare molte illusioni: dovunque arriva l’occidente, sia pure solo con la sirena ammaliatrice del «progresso scientifico», arrivano la desertificazione, l’abbrutimento e, in una parola, la darwinizzazione, cioè il declassamento a scimmia del padre/antenato/capostipite. Arriva insomma la dissimulazione, nel senso biforcuto sia della sagace mistificazione che dello “scimmiottamento” (essendo il diavolo simia Dei) del superiore da parte dell’inferiore. Spetta al caput imperare, non ai pedes. Ergo, se imperano i pedes (il potere illegittimo, i più [di uno], i molti) è perché il potere legittimo (l’uno, il caput) difetta di autorità. D’altra parte, l’usurpazione dell’autorità legittima da parte dell’illegittima è resa possibile solo dall’usura [dell’autorità legittima], usura provocata sì dall’illegittima, ma non attuabile senza una preventiva condizione di usurabilità della legittima.
Si potrà dire che questo giocare con le parole ricorda l’indovinello dell’uovo e della gallina; è vero. Oportet ut scandala eveniant, infatti, perché era scritto che accadessero. Guai però a colui per il quale accadono. In ogni caso, che tutto sia determinato dall’avanzare dell’ateismo, cioè dalla carenza di fede e di fiducia in Chi (come splendidamente dichiara ibn-Arabi) «governa la creazione dall’interno di ogni componente la creazione», dovrebbe esser palese. Come la ýbris prometeica dell’ateismo si basa sul rifiuto della divina Provvidenza, così la psicosi dell’avarizia è un tentativo di bloccare il processo ininterrotto, che quando Dio vuole fa nascere e quando Dio vuole fa morire, della vita universale. Il buon musulmano sa che il kafir (‘laico’, ‘ateo’, ‘rinnegato’ o ‘indemoniato’ che si voglia) si ribella alla rivelazione contenuta nei versi 60 e 61 della sura Al-Waqia, nei quali si afferma che «abbiamo decretato la tua morte e nessuno potrà farCi anticipare o procrastinare il giorno in cui ti sostituiremo con un altro tuo simile, facendoti nel contempo rinascere sotto spoglie che ignori»”.
Siamo tutti colpevoli, noi moderni fieri d'esser tali. E tutti afflitti, perciò, dalla stessa sindrome d’espiazione che la psicoanalisi,* dopo essersi trastullata con un presunto lustprinzip (il “principio di piacere”, se non di “lussuria”, che tanto ha giovato alla femminilità d’oggi), chiama «istinto di morte» (o thànatos). Poiché la componente autopunitiva di questo impulso viene dagli stessi psicoanalisti riconosciuta imputabile ad una ribellione nei confronti della figura paterna, è agevole, per la speculazione islamica, dedurre che solo la sottomissione al padre affranca l’individuo, e perciò la società, dall’autodistruzione. Autodistruzione che, come s’è accennato, non è operante solo sotto l’aspetto psichico, ma anche sotto quello somatico della mancata riproduzione (vuoi per aborto, vuoi per contraccezione e vuoi per omosessualità). È nel progressivo ed inarrestabile calo demografico dei paesi ricchi, infatti, che si cela la speranza dei paesi poveri.

* Non si può ignorare la sotterranea affinità tra la «freudolenza» - per appropriarci d'un bel gioco di parole di S. Borselli - della psicoanalisi (che ha fatto del nobile un parvenu, del puro un imbecille, del virtuoso un musicista, del compos sui un represso, del santo un malato e del genitore [dell’altro sesso] un oggetto erotico) e la fraudolenza della democrazia. Anche questa è usura.

Infine, concludiamo col dire che l’effetto destabilizzante della democrazia, a parte le considerazioni simboliche riferite finora qua e là, è provato anche dalla semplice osservazione per cui, come non ogni metallo è oro, così non ogni essere umano dovrebbe essere ammesso al voto. Il prevedibile corollario, unificante democrazia ed usura, vuole che il suffragio universale equivalga non già a far di ogni metallo oro, bensì dell’oro un metallo vile.


Alla fine di questo piccolo saggio, che ha reso il termine «usura» sinonimo di tutto ciò che è moderno, ci piace trascrivere quasi per intero il suggestivo articolo di G. Auriti Le parole di Satana (tratto dal sito Disinformazione).
"Goethe affermava che «nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo». Questo principio è particolarmente valido nel sistema monetario vigente, perché il cittadino si illude di essere proprietario [dei soldi che ha in tasca], mentre ne è debitore. La banca, infatti, emette la moneta solo prestandola, sicché la moneta circola gravata di debito. Il segno della schiavitù monetaria è dato dal fatto che la proprietà nasce nelle mani della banca (o, per meglio dire, del banchiere) che emette prestando. Ma prestare è prerogativa del proprietario. La moneta, invece, deve nascere di proprietà del cittadino perché è lui che, accettandola, ne crea il valore (tanto è vero che, se ci si mette a stampare moneta in un’isola deserta, il valore non nasce). Quando la moneta era d’oro chi trovava una pepita se ne appropriava senza indebitarsi verso la miniera. Oggi al posto della miniera c’è la banca centrale, al posto della pepita un pezzo di carta, al posto della proprietà il debito. Non si può comprendere come sia stata possibile questa mostruosità storica (nata nel 1694 con la Banca d’Inghilterra e con l’emissione della sterlina) se non si muove dalla definizione della moneta come strumento (sterco) del demonio. La verità di questa definizione è stata avvertita anche da san Francesco d’Assisi, il quale vietava ai padri questuanti di ricevere oboli in moneta. [...] Satana, nel Vangelo, parla tre volte. Dopo il digiuno di Cristo nel deserto, Satana Gli dice: «Tramuta le pietre in pane». Per lo più queste parole sono interpretate come tentazione, in quanto per Cristo affamato l’idea di mangiar pane sarebbe stata motivo di tentazione. Ma questa interpretazione non è accettabile, perché una tentazione è sempre relativa ad un peccato; e mangiar pane dopo quaranta giorni di digiuno è moralmente ineccepibile. Dunque la giustificazione delle parole di Satana va intesa diversamente; chi ci dice come interpretarle è proprio Cristo quando, rispondendogli, afferma (Matteo, IV, 4) «Sta scritto, non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Quelle parole erano uscite dalla bocca di Satana, sicché, per interpretarle esattamente, va considerata l’ipotesi assurda per cui, se Cristo avesse accettato l’invito di Satana e trasformato le pietre in pane, Satana avrebbe potuto ben dire a Cristo: «Tu puoi mangiare pane per mio merito perché io Ti ho dato il consiglio di trasformare le pietre in pane». In tal modo Cristo sarebbe stato trasformato da 'padrone' in 'debitore' del Suo pane. A ben guardare questa ipotesi si verifica puntualmente nell’emissione della moneta nominale. Quando la banca centrale emette moneta prestandola, induce la collettività a crearne il valore accettandola, ma contestualmente la espropria e la indebita di altrettanto, esattamente come Satana avrebbe fatto se Cristo avesse accettato l’invito di trasformare la pietra in pane. Se si mette al posto della pietra la carta, al posto del pane l’oro ed al posto di Satana la banca, si riscontrano nella emissione della sterlina oro-carta (e di ogni successiva moneta nominale) tutte le caratteristiche della tentazione di Satana. [...] L’essersi il protestantesimo basato sulla contestazione dell’Eucarestia e l’aver promosso la costituzione delle banche centrali allo scopo di imporre la «moneta-debito» parla da sé. Non a caso nel 1673 viene approvato il Test Act (l’editto con cui vengono dichiarate illegittime l’Eucarestia e pertanto la Transustanziazione). Non a caso nel 1694 viene fondata la Banca d’Inghilterra, che emette la sterlina in base alla regola di trasformare il costo nullo in moneta, inaugurando l’era dell’«oro-carta». Non a caso la subordinazione del potere religioso a quello politico nasce quando il re d’Inghilterra diventa anche capo della religione protestante anglicana, sovvertendo così l’ordine gerarchico del Sacro Romano Impero, la cui sovranità politica era subordinata all’autorità religiosa. Non a caso il protestantesimo, quando entra nell’Europa continentale, fonda una banca, anziché una chiesa: la Banca Protestante il cui presidente, il Necker, diventa consigliere di Luigi XIV. Non a caso tutte le monarchie cattoliche della vecchia Europa si disintegrano perché si indebitano senza contropartita verso i banchieri, a causa della moneta satanica da questi emessa a costo nullo (moneta che gli stessi re avrebbero potuto emettere gratuitamente per proprio conto senza indebitarsi). Non a caso in Svizzera vige la regola di essere ad un tempo «banchieri» e «protestanti». Non a caso la differenza essenziale tra Sacro Romano Impero e Commonwealth è la moneta. Lì il portatore è proprietario delle moneta, qui è debitore. Non a caso, dopo aver tolto Dio dall’altare con la negazione dell’Eucarestia e fondata la Banca d’Inghilterra, il Commonwealth raggiunge nel 1855 una estensione di 22 milioni e 750 mila chilometri quadrati. Oggi tutto il mondo è Commonwealth. Tutto il mondo è 'colonia monetaria'. Satana, principe di questo mondo, è una persona seria: mantiene le promesse fatte a fin di male. Dopo che il male è stato fatto concede ai suoi adoratori il dominio su tutti i popoli del mondo".