Sintetica definizione di nobiltà, «noblesse oblige» chiarisce la differenza tra il nobile (colui il quale, cioè, è gravato di obblighi) e l’ignobile (colui che s’en foute). Lo snob, il sine nobilitate, non si sente obbligato, ad esempio, nei confronti del coniuge, degli avi e degli eredi, dell’ospite, dell’oppresso, del debole, del superiore come dell’inferiore, insomma obbligato dell’obbligo supremo, l’obbligo di «sentirsi in obbligo». Quanto più si è obbligati, tanto più si è nobili. Il re, il più nobile di tutti i nobili, il rappresentante visibile (in virtù del ponte invisibile del pontefice) dell’Uno, ha più doveri di qualunque suo suddito, perché ha doveri verso [ovvero, è responsabile di] ogni suo suddito.
Ma non nasce, il sovrano da rotocalco, come un fungo da marciapiede, bensì dopo secoli di preparazione del sottobosco ideale. L’abominio nostrano dell’8 settembre, del re che se la dà a gambe come un topo, abbandonando la nave e la ciurma al nemico (tedesco o americano che fosse, me ne frego, «‘ché io sô io - epigrafa il poeta - e voi nun sête un cazzo»), sarebbe stato impensabile, un millennio fa. Questo, nonostante qualche illustre eccezione come quella rappresentata dall'ultimo imperatore europeo degno di questo nome, Carlo I d'Austria, re apostolico d'Ungheria e santo della Chiesa.
Eppure è vero anche il contrario. La colpa è anche nostra perché, se è vero che il pesce comincia a puzzare dalla testa, è altresì vero che, per puzzare, dev'essere già morto. Abbiamo accettato ogni compromesso, fino alla resa incondizionata di questa nostra Europa senza Dio che, negando le sue radici cristiane,* s'è consegnata ipso facto a Satana.


* Le dodici stelle [in campo azzurro], il simbolo della Vergine, sono state adottate ufficialmente dall'Unione Europea nell'ormai lontano 8 dicembre 1955, festa dell'Immacolata Concezione. Nulla togliendo all'infinita ed imperscrutabile bontà divina, che salva chi vuole, come e quando vuole, non sembri illecito ricordare all'agnostico europeoide d'oggi, senza fede, senza famiglia, senza passato (e perciò senza futuro) che, se gli è stato impartito il sacramento del battesimo, la faccia che in hora mortis nostrae vedremo sarà quella della Madonna, "la faccia che al Cristo più somiglia".

Circa il «noblesse oblige», si può aggiungere che nulla sembra turbare tanto l'animo moderno quanto la locuzione «bonario paternalismo», locuzione che richiama alla mente l'immagine di un padre incarnantesi, di zoom in zoom, nel capo, nel superiore, nel padrone, nel signore, nel paterfamilias insomma, via via feudale, regale, papale e, in definitiva, divino.
L'obiettivo satanico (o prometeico, il che è lo stesso) è, da sempre, l'abolizione della famiglia, il solo baluardo da opporre alla schiavitù di massa, il nucleo minimo di autosufficienza utile ad evitare il ricorso, oggi spasmodico, ai «pubblici servizi». I precedenti storici di questa campagna secolare, per limitarci ai tempi moderni, vanno dallo smantellamento dell'ordine feudale alla superfetazione dei cosiddetti «stati nazionali»,* attraverso il fil[ippe quatrième] rouge della cupidigia dei parvenu, degli arricchiti, insomma della "gente nova" dai "sùbiti guadagni".


* Superfetazione degna di una «procreazione assistita», se è vero che l'entità puramente fittizia e convenzionale dei cosiddetti «stati nazionali» (rapportabili, per un confronto, a quello che è [o era] l'Iraq attuale, nato «a tavolino» squadrando una cartina geografica) ha inglobato, e costretto a convivere, popolazioni eterogenee, se non per altro, almeno linguisticamente. Basti pensare che, per citare le esemplificazioni inglese, francese ed italiana, nessuna di queste tre lingue è stata appannaggio della maggioranza dei componenti la relativa «nazione» fino al secolo, rispettivamente, XV, XIX e XX. In dettaglio, in Inghilterra (o, meglio, in quella porzione d'Inghilterra a sud del Danelaw che era il Wessex di re Alfredo) si parlava inglese già nel IX secolo. Ma nel secolo successivo la conquista danese, che divise l'intero paese in quattro earldoms (Northumbria, Mercia, Anglia e lo stesso Wessex), ripristinò lo svedese e il norvegese a nord e il danese a sud. Nel secolo XI i normanni di Guglielmo «il conquistatore» introdussero il francese, che restò d'uso comune fino al 1400.
Nel caso della Francia, il francese restò lingua minoritaria, ristretta all'isola parigina, fino ai tempi napoleonici e, a proposito dell'Italia, basterà ricordare che solo l'avvento della televisione ha permesso l'unificazione (e l'impoverimento) lessicale. Fin qui, per la lingua. In merito, invece, alla distruzione dell'ordinamento feudale (ed al relativo accantonamento della presenza ecclesiastica), basterà rifarsi, in Francia, alla strage dei templari (tragica anticipazione del genocidio vandeano, genocidio deplorato verbalmente da Napoleone, ma esaltato in concreto con l'incisione del nome del generale Turreau, «il boia della Vandea», al sommo dell'Arc de Triomphe, dove è tuttora leggibile e sotto il quale sfila ogni presidente francese) e, in Inghilterra, dopo le successive usurpazioni dei Lancaster a danno dei Plantageneti (francofoni, come i nostri Savoia) e dei Tudor a danno dei medesimi Lancaster, allo scisma di Enrico VIII, Papa e Re insieme.
Circa l'Italia, per avere la certezza che la pretesa «liberazione» fu solo una conquista sabauda nel segno dell'anticlericalismo, qui basterà ricordare la denominazione assunta da Vittorio Emanuele secondo quale primo re del nuovo Stato, il finanziamento inglese della spedizione dei Mille, la definizione di Pio IX coniata da Garibaldi («un metro cubo di letame»), lo sbarco nel protettorato britannico di Marsala, la presa di Palermo «senza quasi colpo ferire», l'affondamento del piroscafo sul quale viaggiava (con i suoi pacchi di ricevute attestanti le avvenute corruzioni) il cassiere Ippolito Nievo, la truffa dei plebisciti, gli esproprii cavouriani dei conventi e, chi più ne ha, più ne metta. Questo, per limitarci alle vicende risorgimentali sagacemente dirette dalla «perfida Albione», perché le cosiddette «insorgenze», lungo l'intera penisola (dal cardinale Ruffo al marchese Albergotti, passando attraverso quel «pezzente» d'un Michele Pezza, in arte fra' Diavolo) dimostrano a sufficienza quanto scarso fosse l'entusiasmo dei liberandi nei confronti degli «infranciosati» liberatori. Infine, poiché de mortuis nil nisi bene, stendiamo un velo pietoso sui trecento, giovani e forti, che provano solo come le rivolte «popolari» e le rivoluzioni «proletarie» non nascano dal basso, ma dall'alto di un'élite, nel migliore dei casi, di ingenui malfattori e, nel peggiore, di scaltri benefattori.

Tuttavia, sebbene una puntuale cognizione dello sporco imbroglio di cui noi moderni siamo vittime possa sembrare indispensabile (sul che, però si veda anche qui), non si deve trascurare il vecchio adagio che insegna a non cercare il nemico al nostro esterno. Sbandierare la minaccia di un nemico alternativo al nemico vero, quello interno, cioè, è il trucco preferito di Satana. La colpa è insomma anche della vittima. In modo più sfumato, diciamo che il frutto cade solo quando deve cadere. Oportet ut scandala eveniant, sicché, perché l'aristocrazia era marcia, la struttura feudale corrotta, l'Impero e lo stesso Papato non esenti da critiche. Di nuovo è vero, come dicevamo, che il pesce comincia a puzzare dalla testa: "Corruptio optimi pessima. | Questo principio giustifica tutti coloro | che hanno costretto il prossimo ad accettare leggi, | costumi, lingue, fedi, tradizioni, monete, | il nuovo, in una parola, ed a buttare il vecchio | ‘ché, se quest’ultimo non fosse stato decrepito, | non ci sarebbe stato verso alcuno | di rinnovarlo".

Resta il fatto per cui, sparita la Christianitas medioevale, in via di sparizione gli staterelli europei e [ri]apparsa l'alternativa a Dio, cioè Mammona (id est pecunia), dobbiamo riconoscere che ci hanno infinocchiato a dovere, quelli di Bruxelles, lasciandoci con gli stessi omonimi cavoletti della Roma imperiale, lodata da Rutilio Namaziano con le parole «fecisti patriam diversis gentibus unam» e fagocitata dai barbari dell'epoca.
Barbari? Chissà. Anche Carlo Magno era un barbaro.