Dopo lungo ruminare, lo scrivente ha finalmente digerito il rospo.
Non poteva finire altrimenti, peraltro, perché un cattolico che contraddica il Papa non è cattolico; se così non fosse, quale sarebbe la differenza tra lui ed un protestante?
Va tutto bene, sicché. È bastato accettare le novità post-conciliari, dall'Antica Alleanza "mai revocata" (1981) ai "Fratelli maggiori nella fede" (1986). Maggiori - così Giovanni Paolo II - nel senso ontologico di "prediletti", oltre che in senso cronologico. Prediletti da noi cristiani o dal Signore stesso? Chissà.
Va tutto bene. Benissimo.
Inoltre, se i fratelli maggiori sono definiti da Benedetto XVI "destinatarii della Prima Alleanza", anziché dell'Antica, se ne deduce che adesso noi cristiani siamo destinatarii della Seconda, non più della Nuova [che sostituisce la precedente]. Ergo, se la prima è tuttora valida, come una polizza assicurativa mai disdetta dal Padreterno, ferma restando la validità della seconda, dev'esser valida anche la terza. In fondo, non c’è due senza tre. Questo è il bello di un'aggettivazione appropriata: laddove una Novissima Alleanza avrebbe stonato, una Terza Alleanza coi musulmani suona bene.
Esultino, dunque, i fratelli minori di noi fratelli mezzani.* Come non c'è più bisogno di pregare pro perfidis judaeis, ormai fratelli prediletti, così non occorre più sperare nella conversione di quei birbanti di musulmani, ormai fratelli
suddiletti (se così si può dire, sulla scia di 'prefisso' e 'suffisso' o 'predetto' e 'suddetto', benché questi siano sinonimi e quelli contrarii).
È la Triplice Santa Alleanza.


* Il mezzano sarebbe chi scrive, che sta tra il fratello minore muslimmo ed il fratello maggiore giudeo come il buco del culo sta tra la chiappa destra e quella sinistra. Non è una situazione lusinghiera, ma soddisfa l'innata esigenza d'umiltà del buon cristiano.

oOo

Abbiamo celiato, è vero. Tuttavia, a proposito di rospi [non facilmente digeribili], ci sia permesso indugiare un po' sul baccano levatosi dopo le recenti affermazioni dell'attuale papa, che - nella celebre intervista di Scalfari - dichiarava quanto segue: “Ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui li concepisce”. Secondo alcuni commentatori, con tali parole il Bergoglio del 2013 contraddice il pur audacissimo Wojtyla del 1993, che (nella Veritatis splendor) criticava l’attribuire “alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male”.
Francesco I, sicché, propone quella deprecata (ibidem, § 32) "concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale"? A noi, pur nella nostra insignificanza, ed a patto di distinguere tra la soggettività del credente e quella del miscredente, non sembra affatto.
L'enciclica Veritatis splendor, infatti, a leggerla tutta, può riservare alcune sorprese.
Tra queste, le seguenti.
§ 54 - Il rapporto che esiste tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel «cuore» della persona, ossia nella sua coscienza morale: «Nell'intimo della coscienza - scrive il Concilio Vaticano II - l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa' questo, fuggi quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (cf Rm 2, 14-16)».
§ 3 - [...] La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna».
§ 53 - La grande sensibilità che l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell'immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell'esistenza di «norme oggettive di moralità» valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato [...]. Non si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo «qualcosa» è precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere.
§ 31 - I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell'uomo. Senza dubbio il nostro tempo ha acquisito una percezione particolarmente viva della libertà. «In questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona umana», come constatava già la dichiarazione conciliare
Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Da qui l'esigenza che «gli uomini nell'agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere».
§ 52 - È giusto e buono, sempre e per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo verità i genitori. Simili precetti positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di coltivare certi atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili; uniscono nel medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia, creati per «la stessa vocazione e lo stesso destino divino». Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù. I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti.
§ 57 - Secondo le parole di san Paolo, la coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa «testimone» per l'uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità morale. La coscienza è l'unico testimone: ciò che avviene nell'intimo della persona è coperto agli occhi di chiunque dall'esterno. Essa rivolge la sua testimonianza soltanto verso la persona stessa. E, a sua volta, soltanto la persona conosce la propria risposta alla voce della coscienza.
§ 58 - Non si apprezzerà mai adeguatamente l'importanza dell'intimo dialogo dell'uomo con se stesso. Ma, in realtà, questo è il dialogo dell'uomo con Dio, autore della legge, primo modello e fine ultimo dell'uomo. «La coscienza - scrive san Bonaventura - è come l'araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l'editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di obbligare».
§ 61 - Così nel giudizio pratico della coscienza, che impone alla persona l'obbligo di compiere un determinato atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per questo la coscienza si esprime con atti di «giudizio» che riflettono la verità sul bene, e non come «decisioni» arbitrarie. E la maturità e la responsabilità di questi giudizi - e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto - si misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità oggettiva, in favore di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma, al contrario, con una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da essa nell'agire.
§ 62 - La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di errore. «Succede non di rado - scrive il Concilio - che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato». Con queste brevi parole il Concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza erronea.

§ 50 - Si può ora comprendere il vero significato della legge naturale: essa si riferisce alla natura propria e originale dell'uomo, alla «natura della persona umana», che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine.
§ 94 - In questa testimonianza all'assolutezza del bene morale i cristiani non sono soli: essi trovano conferme nel senso morale dei popoli e nelle grandi tradizioni religiose e sapienziali dell'occidente e dell'oriente, non senza un'interiore e misteriosa azione dello Spirito di Dio. Valga per tutti l'espressione del poeta latino Giovenale: «Considera il più grande dei crimini preferire la sopravvivenza all'onore e, per amore della vita fisica, perdere le ragioni del vivere».* La voce della coscienza ha sempre richiamato senza ambiguità che ci sono verità e valori morali per i quali si deve essere disposti anche a dare la vita. Nella parola e soprattutto nel sacrificio della vita per il valore morale la Chiesa riconosce la medesima testimonianza a quella verità che, già presente nella creazione, risplende pienamente sul volto di Cristo: «Sappiamo - scrive san Giustino - che i seguaci delle dottrine degli stoici sono stati odiati ed uccisi quando hanno dato prova di saggezza nel loro discorso morale [...] a motivo del seme del Verbo insito in tutto il genere umano».


* «Summum crede nefas animam praeferre pudori | et - propter vitam - vivendi perdere causas» (Satirae, VIII, 83-84).