Come è ovvio, queste righe sono scritte senza alcun tornaconto.* Tornaconto materiale, s'intende. La presenza dell’amor Dei, infatti, giustifica il regalo, la natura regale cioè del dono, la matrice aristocratica del comportamento di chi nulla chiede [in cambio] e, infine, la libertà di chi è nobile e la nobiltà di chi è libero.
Free, e neppure share, perché l’ap-pagamento è richiesto solo laddove appagati non si è. Free, e neppure share, perché (si licet parva componere ...) Dante l'ha scritta gratis, la Commedia.

* Ci mancherebbe altro. In questo sito si scrive solo a mo' di passatempo, anche perché chi vi collabora non ha molti altri modi di lasciar passare il tempo. Al riguardo, potremmo chiederci perché si dica «passare», invece di «far passare», il tempo. Perché, insomma, il verbo lo si usi sia transitivamente che intransitivamente. È quindi possibile passare il tempo come le verdure, facendone un passato? E magari facendolo ap-passire, come l'uva passa? Effettivamente, «passare» sembra provenire dal latino pàndere ("fendere", "attraversare"), il cui participio passato è il nostro «passo». Certo non è una passeggiata, quella che va dalla sofferenza di una 'passione' (amorosa e no) all'avvizzimento di un pashu, cioè di un "animale" qualsiasi (ma il termine sanscrito è anche alla base del pathos greco). In ogni caso, siccome tutto passa, il ricordo addolcisce - facendone 'passato' - anche le amarezze.
 
Sembra arduo definire «aristocratico» il cristianesimo, sebbene l’autodominio non sia alla portata di tutti. Sembra arduo perché siamo stati [ad arte] avvezzati a tener conto solo delle azioni ed a trascurare le motivazioni.
Il porger l’altra guancia, ad esempio, è un gesto addebitabile sia a debolezza che ad una forza interiore tutt’altro che democratica; analogamente, l’obbedire al proprio superiore potrebbe sembrare caratteristico del servo o del figlio [nei confronti del padre/padrone], se non si pone mente alla struttura gerarchica del concetto stesso di nobiltà, concetto che prevede, sia letteralmente che metaforicamente, il dover essere stato figlio prima di poter diventare padre. Detto diversamente, servo prima di padrone. E sorvoliamo sull’unica alternativa possibile al celibato, o nubilato che sia, ovvero quel matrimonio monogamico ed indissolubile che, comprensibilmente, rappresenta lo spauracchio di noi moderni «liberati» da qualsiasi obbligo [di nobiltà].
In questo senso, aristocratici sono solo il cattolico e l’ortodosso. Per quanto riguarda il protestante, la galassia «riformata», che conta al suo interno più di 16.000 confessioni diverse, si regge infatti su un principio di per se stesso «scismatico», e cioè l’interpretazione soggettiva della fede.
In questo senso, ancora, noi moderni siamo [quasi] tutti protestanti.
Protestanti e un po’ gretti, perché la contabilità del dare e dell’avere, che si traduce nella monetizzazione ossessiva anche di quanto monetizzabile non è, sembra davvero la stimmata genetica (che qualcuno ha felicemente definito «il PIL nell’ovulo») di noi banchieri-bancarii-banchisti, ciascuno con la sua brava bancarella.

oOo

A proposito di pashu, nel pantheon indù l'attributo pashupati, cioè "signore degli animali", ovvero "colui che com-patisce gli animali", è spesso dato a Shiva. Viste le caratteristiche, generalmente abbastanza spietate, di Shiva-Marte, c'è chi conferisce tale appellativo a Pushan (più o meno l'equivalente del greco Pan o del latino Faunus).

L'assonanza di pasciu - scritto più semplicemente così - con pascià può mettere in imbarazzo, se si confonde il soggetto con l'oggetto. È la stessa ambivalenza del termine «compassionevole», riferibile sia a chi la offre - la compassione - sia a chi la riceve. Altrettanto può dirsi di «compatibile» ("che com-patisce la passione altrui").
Per tornare a pascià, vocabolo turco derivante da patiscià (titolo onorifico che, nell'impero ottomano, designava il gran sultano), esso sta letteralmente per "re dei re", o "signore dei signori", se non addirittura "compassionevole dei compassionevoli". La radice di pati è infatti la stessa di pater. Da questo punto di vista, pashupati è un pleonasmo.
Collegato con pater, che in fondo è chi dà da mangiare, e perciò con pasciu, è pasco, oggi usato solo al diminutivo, cioè pascolo. Del resto 'pascere' ("foraggiare", "nutrire"), identico in latino, rientra in quest'orbita. Così, infine, da un lato il pathos è la sofferenza (patìa) di chi soffre, dall'altro è la sofferenza di chi vede soffrire (patopatìa).