Lungamente meditabile, quanto segue è tratto da P. Nutrizio, Un equivoco di fondo, in "Rivista di Studi Tradizionali", n. 74, Gennaio - Giugno 1992 e n. 76, Gennaio - Giugno 1993.
Trattando delle qualificazioni iniziatiche [...] Guénon dice essere assiomatico che la qualificazione essenziale, quella che domina tutte le altre, è la consapevolezza della totale dipendenza dal Principio. È la coscienza di questa dipendenza a costituire quella che numerose tradizioni chiamano «povertà spirituale». [...] Semplicità e piccolezza - aggiunge questi - sono [...] equivalenti di quella povertà di cui si parla così spesso nel Vangelo. 'Beati i poveri in ispirito, perché ad essi appartiene il Regno dei Cieli'. Questa povertà (in arabo el-faqru) conduce, secondo l'esoterismo musulmano, ad el-fanâ, cioè all'estinzione dell'io; e per mezzo di questa estinzione si raggiunge la stazione divina (el-maqâmul-ilâhî), che è il punto centrale in cui tutte le distinzioni inerenti ai punti di vista esteriori sono superate, e tutte le opposizioni scompaiono e si risolvono in un perfetto equilibrio.
Dimenticare, o trascurare, la necessità di un simile sforzo [...] è in qualche modo naturale per chi [...] sia aperto agli atteggiamenti mentali e pratici di quella che Guénon denomina «la vita ordinaria». Sarà perciò opportuno citare qualche episodio, tratto dalla tradizione, che sia in grado di mettere in rilievo il carattere e, se si può dire, la dimensione di questo sforzo in esseri veramente consapevoli della serietà e della portata di una via che conduce alla conoscenza, e l'atteggiamento profondo che deve accompagnarlo costantemente, ben diverso da quello che caratterizza esseri immersi nella vita profana. Questi episodi sono tratti da due testi che appartengono, il primo, alla tradizione islamica (il Tadhkiratul-awliyâ di Farîd ad-Dîn al-'Attâr, la cui traduzione italiana si intitola Parole di sûfî), il secondo, a quella cinese (Les pères du système taoïste, traduzione francese dei testi taoisti imputabili a Lao-tse, Lie-tse e Chuang-tse).
[...] Per quanto riguarda il caso di coloro che, senza voler fare gli sforzi necessari, hanno la pretesa di cercare la conoscenza, si può leggere con profitto questo episodio, che concerne un altro grande sûfî, Ibrâhîm ben Adham (Parole di sûfî, pp. 133-134).
«Ibrâhîm era pascià della città di Balkh e le ricchezze di numerosi principati affluivano nei suoi forzieri. Una notte, mentre era coricato, intese improvvisamente sul tetto del suo palazzo un rumore di passi. “Chi è che cammina sul tetto?”, gridò. Una voce gli rispose: “Ho perduto un cammello e sono alla sua ricerca su questo tetto”. “Ma, razza d'ignorante, hai perso dunque la ragione per andare a cercare un cammello sui tetti?”. “Sei un imprevidente - gli rispose subito la voce - tu che, sdraiato su un trono d'oro, cerchi l'Altissimo. Ecco una cosa ancor più strana che non cercare un cammello sui tetti”.
A queste parole il terrore s'impadronì del cuore d'Ibrâhîm; egli si alzò, prese il suo tappeto e vi rimase in meditazione fino ai primi raggi dell'aurora. L'indomani mattina, come ogni giorno, si assise sul trono, attorno al quale si disposero, ciascuno al proprio posto, come di solito, i grandi del regno e le guardie del corpo. A un certo punto Ibrâhîm scorse in mezzo alla folla un personaggio maestoso e di altissima statura, che avanzava senza che gli uscieri e le guardie s'accorgessero di lui. Quando gli giunse accanto, Ibrâhîm gli chiese: “Chi sei? Che cosa cerchi?”. Risposta: “Sono straniero, e desidero alloggiare in questo albergo”. “Ma questo non è un albergo - osservò Ibrâhîm - è casa mia”. “A chi apparteneva prima di essere tua?”. “A mio padre”. “E prima di tuo padre?”. “A mio nonno”. “E allora, non è forse un albergo questa casa, giacché quelli che se ne vanno vengono sostituiti da quelli che arrivano?”. Dette queste parole si allontanò. Ibrâhîm si alzò e rincorse lo strano personaggio, gridando: “Fèrmati, in nome di Allâh”. Questi si fermò. “Chi sei tu - domandò Ibrâhîm - che hai acceso il fuoco nel mio cuore?”. “Sono al-Khidr. Svégliati, Ibrâhîm, è tempo”. E disparve».
Quanto poi all'atteggiamento di fondo da mantenere nel corso del lavoro che favorisce uno sviluppo spirituale e intellettuale, elemento che è anch'esso il prodotto di uno sforzo, ma di un genere differente e probabilmente ancor più arduo da sostenere, è opportuno conoscere i due episodi che seguono, che riguardano nuovamente Ibrâhîm ben Adham (Parole di sûfî, p. 144-145) e un discepolo di Lao-tse (Les pères du système taoïste, Tchoang-tzeu, p. 246-247).
«Qualcuno domandò a Ibrâhîm: “Da quando sei entrato in questa via, ti è mai capitato d'essere allegro?". “Ma certamente - egli rispose - e più di una volta. Un giorno, per esempio, m'ero imbarcato con una comitiva di numerose altre persone su un battello fluviale. Avevo i capelli lunghissimi e gli abiti sbrindellati, sì che nessuno mi riconobbe; anzi, tutti mi ridevano in faccia. Sul battello si trovava un burlone di cattivo gusto che a ogni occasione mi si avvicinava, mi tirava i capelli o me li strappava e mi batteva.
Constatando d'essere caduto in 'sì spregevole condizione, provai un vivo sentimento di gioia. Improvvisamente le acque del fiume si agitarono minacciosamente e le onde cominciarono a flagellare la nostra imbarcazione. Il proprietario allora disse: “Bisogna gettare qualcuno nell'acqua, affinché il fiume si plachi”. E, prendendomi per le orecchie, mi gettò nel fiume, le cui acque si calmarono immediatamente per effetto dell'onnipotenza dell'Altissimo. In quel momento, vedendomi così umiliato e così impotente, mi sentii felice.
Un'altra volta ero appena salito nella galleria superiore d'una moschea, per riposarmi, quando sopraggiunsero numerose persone che mi scacciarono. Siccome non potevo alzarmi rapidamente a causa dello stato di debolezza e fatica in cui mi trovavo, mi afferrarono, mi trascinarono di forza e mi gettarono per le scale della moschea, e quindi discesi rotolando. Ogni qual volta la mia testa batteva contro uno scalino vi si apriva una ferita; ma, per grazia dell'onnipotenza Divina, a ogni colpo si svelavano ai miei occhi i misteri di tutta una regione celeste; per cui dissi, rapito, in cuor mio: “Piaccia ad Allâh che ci siano ancora molti gradini”».
La storia taoista è questa.
«Yang-tzeukin andandosene a P'ei e Lao-tzeu a Ts'inn, i due si incontrarono a Leang. Colpito dall'atteggiamento tronfio di Yang-tzeukin, Lao-tzeu levò gli occhi al cielo ed esclamò con un sospiro: “Non credo che sia il caso di perdere il mio tempo a istruirvi”. Yang-tzeukin non rispose. Arrivati che furono al villaggio, Yang-tzeukin portò subito di persona a Lao-tzeu il necessario per rinfrescarsi e lavarsi. Poi, lasciati i calzari fuori della porta, procedette ginocchioni fino alla sua presenza e gli disse: “Da tanto tempo desidero intensamente ricevere il vostro insegnamento. Non ho avuto il cuore di fermarvi per strada e richiedervelo; ma, ora che disponete di un po' di tempo, vi prego di spiegarmi prima di tutto il significato delle parole che avete pronunciato vedendomi”. Lao-tzeu rispose: “Avete lo sguardo così altezzoso che fate scappare la gente, mentre il discepolo della saggezza è come confuso, per quanto irreprensibile possa essere di fatto, e sente la propria insufficienza, per quanto possa essere avanzato”. Colpitissimo, Yang-tzeukin rispose: “Approfitterò della lezione”. Ne approfittò tanto bene, e diventò così modesto, nello spazio della sola notte trascorsa all'ostello, che il personale della casa, che l'aveva servito con timore e reverenza all'arrivo, alla partenza non lo degnò del minimo riguardo».

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Ciò detto, sempre nell'ambito del nostro pressappochismo, vorremmo aggiungere che la povertà spirituale sopra descritta è altresì appannaggio del mistico, personaggio peculiarmente cristiano le cui carenze conoscitive non ne fanno, a rigore, un esoterista. Eppure, come sostiene ancora Guénon, una sola briciola di conoscenza intellettuale (facoltà sovraindividuale, che pertanto esige la scomparsa dell'io) è incommensurabilmente superiore a qualsiasi conoscenza razionale, a quell'ich denke cogitabondo, cioè, che affligge noi moderni.
In questa chiave anche punti di vista dichiaratamente exoterici (e squisitamente cattolici, come il seguente, di S.M. Chiari), acquistano una luce inedita. A proposito della preghiera, e dell'orante, vi si legge infatti che "l’azione di costui consisterà nel soggiogare, con l’aiuto della grazia e mediante il proprio sforzo continuo e mai arrendevole, le passioni disordinate del corpo e dell’anima; la privazione di ogni ostacolo che, posto di traverso, non consenta di accedere oltre la soglia del proprio piccolo e confinato «io»".
Questo è l’exoterismo, almeno a livello privato, che Guénon paragona alle fondamenta dell’edificio esoterico, la trascuratezza (se non l’ironia) nei confronti del quale trasforma in un castello di sabbia il palazzo di chi si spaccia per esoterista.
C’è anche l’exoterismo pubblico, ovviamente, fatto di riti e di cerimonie e, pertanto, di un certo sfarzo: è quello che Guénon dipinge come la polpa di un frutto il cui nòcciolo è l’esoterismo. Ma anche in questo caso il frutto è unico; inoltre in questo caso, a differenza di quello dell’esempio precedente, solo all’esoterismo si addice il làthe biòsas, il celarsi nell’oscurità del silenzio.
Per dirla altrimenti, parafrasando l’adagio, l’esoterismo di cui si parla - e, pertanto, di cui si può parlare - non è l’esoterismo.