Il più pulito cià la rogna, si dice, a Roma.
Vien da dirlo anche a noi, che certamente più puliti non siamo, sul conto dei componenti le tante congreghe di esoteristi, alchimisti, cabalisti, occultisti, teosofisti, iniziati male e finiti peggio. Tempo fa abbiamo trascritto parte di un bell'articolo di P. Nutrizio, sollecitante maggior umiltà - nei confronti dell'indicibile - da parte di chi, in un modo o nell'altro, a torto o a ragione, ne dice qualcosa. Citando a mo' di prologo il maestro Guénon ['maestro' nel senso più pieno del termine, potendosi imparare qualcosa anche dalle sue affermazioni inesatte], il quale considera "assiomatico che la qualificazione essenziale, quella che domina tutte le altre, è la consapevolezza della totale dipendenza dal Principio", in quell'articolo si propone qualche episodio tradizionale in merito a detta umiltà.
Tuttavia, se si è battezzati, ci si potrebbe chiedere a) perché cercare sempre e solo esempii esotici, in questo caso sufisti e taoisti e b) perché chiamare l'Uno sempre e solo «Principio», anziché «Dio». È una domanda che poniamo anche a noi stessi, visto che non siamo esenti da tale pecca.
In ogni caso, la questione si inquadra in un annoso e più ampio problema, riguardante la supposta assenza dell'esoterismo, nel cattolicesimo. O addirittura nel cristianesimo (tema sul quale si rimanda anche al Guénon citato qui). Avendo già gettato un'occhiata sulla gnosi e sullo gnosticismo, non torniamo sull'argomento e - saltando ogni riferimento ai padri della Chiesa - fermiamoci all'evangelista che avvisa il massone di turno ("ogni segreto verrà manifestato - Marco, IV, 22 - e ogni cosa nascosta sarà resa palese") e all'«apostolo dei gentili», come san Paolo si autodefinisce.
Orbene, in quest'ultimo (ad esempio nella Seconda lettera ai corinzii, XII, 2-11) si possono leggere esattamente le stesse cose lette nei testi sufisti e taoisti: "Conosco un uomo [...] che - se con il corpo o senza il corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in Paradiso [...]. Di lui io mi vanterò. Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato, perché direi solo la verità; ma evito di farlo [...]. Mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità; [...] quando sono debole, è allora che sono forte".

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L'indicibile è ciò di cui non solo non si deve, ma di cui necessariamente non si può dire alcunché. E l'ermetismo, a rigor di termini, che si sia o no un barattolo, consiste nel non farsi sfuggire neppure un fiato. Se proprio ci si vuole esprimere, circa l'inesprimibile, poiché s'è ricevuta "una bianca visione di Grazia", facciamolo in maniera orfica: "e bianca e lieve e querula salì | e bianca e lieve e tremula salì". E bianca e lieve e pendula calendula, potremmo aggiungere, visto che al poeta "diventato pazzo" (non è Dino Campana, a dirlo, ma ancora san Paolo, ibidem) s'accoda l'imperatore: "Animula vagula, blandula, pallidula, nudula". Magari albula, come l'acqua della villa di Tivoli. Et omnia alba albis.


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L'uomo di cui parla san Paolo fu sì "rapito in Paradiso", ma più esattamente "fino al terzo cielo", il cielo di Venere. Su ciò l'astrologo, come qualsiasi amante dell'arcano, magari 'new age', può ricamare ad libitum. Ma farlo non è nostra intenzione, sia perché il culto di Venere va ben oltre l'ambito comunemente detto «venereo»,* sia perché quel che ora ci interessa è il passo dell'epistola paolina in questione, che prosegue specificando come l'uomo ivi citato abbia udito "parole che non è lecito al alcuno pronunciare".

* Si pensi, per esempio, alla devozione afroditica delle amazzoni. O al culto romano di Venere (il cui tempio si deve all'imperatore poc'anzi citato). Del resto Enea ne è figlio, di Venere. A proposito di Anchise, ci sia permesso trascrivere di seguito una bella nota di G. Padoan, tratta dall'omonima voce dell'Enciclopedia Treccani. "Dante [...] ricorda la morte del vecchio Anchise in Sicilia (Pd XIX 132) e la discesa all'Inferno di Enea per rivederlo (Cv IV XXVI 9), rivivendone in particolare l'incontro commovente (Pd XV 25-27; cfr. Aen. VI 684-694) nell'analogo suo incontro con l'avo Cacciaguida, ricalcato volutamente su quello. Ma al di là di queste reminiscenze erudite sta soprattutto a cuore al poeta la profezia di Anchise a proposito dell'impero, cui egli fa ripetutamente riferimento (If II 13, 26-27; Mn II VI 9, dove si cita Aen. VI 847-853). È questo un punto di capitale importanza per comprendere alcuni aspetti fondamentali del pensiero dantesco: Dante presta infatti completa fiducia a quei versi virgiliani, cui attribuisce valore di testimonianza storica, di profezia veramente avvenuta e veridica: tanto da addurre quel passo tra le prove inconfutabili della legittimità dell'impero romano. Del resto alcuni commentatori medievali - ed è chiosa accolta dal figlio di Dante, Pietro - presentano le parole di Anchise come 'revelatio Dei', pur intendendo ciò genericamente in chiave di allegoria morale e senza trarvi particolari conseguenze. L'estensore di questa nota, memore della ricca fantasia con la quale il lettore medievale tendeva a forzare in senso cristiano i testi antichi, fraintendendone e violentandone il senso, non tace la possibilità - che alla luce di quanto si è or ora detto diviene probabilità - che in quel medesimo passo Dante, anziché l'esposizione della metempsicosi, abbia intravisto una confusa profezia del Purgatorio (le anime, che non si sono ancora del tutto liberate dai vizi terreni, desiderano, purgate, di giungere al fiume Lete e salire al cielo: cfr. Aen. VI 714-715, 719-720, 735-740, 748-750; i chiosatori medievali indicano qui: 'animae quae purgantur') e della resurrezione della carne (cfr. Aen. VI 720-721, 751) da parte di quel poeta pagano che nell'egloga IV aveva pur profetizzato la venuta del Redentore, raccogliendo l'eredità della tradizione della profezia sibillina (ritenuta veridica dal cristiano medievale)". Ciò detto, il critico fa presente, a malincuore, "come la prospettiva segnalata in fine [sia] ovviamente assurda per il lettore moderno".

Avendo destinato il presente articolo all'incomunicabile, chiudiamolo col domandarci quale sia la differenza tra chi vive in un mondo fantastico, privo di riscontri nel mondo concreto, quotidiano, ovvero comune ai più, e chi vive in un mondo della cui realtà nulla può comunicare ai proprii simili.