Abbiamo fatto cenno, qua e là, all'espressione idiomatica «dare il LA», espressione che letteralmente sta per "intonare [uno strumento musicale]" e metaforicamente per "avviare", "dare inizio", "far da battistrada". In inglese, questi due sensi di un improbabile to give the A si potrebbero rendere, rispettivamente, con "to set the tone" e con "to initiate", "to lead the way", "to clear the ground for others to follow".
Supposta l'equivalenza tra A e LA, quale rapporto intercorre tra la sesta nota della scala di DO e la prima lettera del nostro alfabeto? Quale rapporto tra la sesta nota e la dodicesima lettera dell'alfabeto semitico (ebraico, fenicio, aramaico e arabo)? Che cosa lega insomma la L (lam, lamed, lambda) e la A, lettera che già s'è visto simboleggiare l'Uno?

Non sporgendoci troppo, lungo la china delle ipotesi azzardate, limitiamoci a notare che, dei simboli relativi ai quattro elementi classici, solo quelli dell’aria e del fuoco, corrispondenti ad A quella e ad L o lambda (Λ) questo, hanno tendenza ascensionale. E se questo significa giocare coi segni, anziché coi significati, si potrebbe insinuare che nella lettera L si celi un che di ludico e di infantile, tra un «lallero lallà» ed una "ninna-nanna" (lullaby, in inglese), fino al moderno acronimo LOL (ovvero laughing out loud), attraverso Lilith (לילית) e l'immortale Lalla del Cashmir (Lalla Arifa per il musulmano e Lalleshwari per l'indù).
"Forse non lo sai - canta il mio collega Vecchioni - ma pure questo è amore".

Fermiamoci a Lila (Layla, Lola, Liolà e Lulù).

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Il termine sanscrito lîlâ - scrive Ananda K. Coomaraswamy nel saggio omonimo (dal quale traiamo quasi tutte le considerazioni seguenti) - si applica ad ogni tipo di gioco e può rendersi in greco con paidèia (paidià), vocabolo la cui allusione all'infanzia vieta qualsiasi collegamento a giochi da adulti quali, per esempio, quello d'azzardo. Il gioco, insomma, o è da bambini o non è.
Attribuire al Gioco divino questo aspetto non è facile, per noi occidentali o comunque per noi appartenenti alla «gente del Libro». Eppure Eckhart dice che "c'è sempre stata una componente giocosa, nel Padre, anche prima della Creazione". E Boehme rincara la dose: "Il Gioco è eterno; la Creazione non ne rappresenta che l'esteriorizzazione" (Signatura rerum, XVI, 2-3). D'altra parte Platone, dopo aver definito le creature in generale e l'uomo in particolare «giocattoli di Dio»,* precisa che è nostro dovere "muoverci in obbedienza al cordone d'oro al quale siamo sospesi", ovvero "divertendoci a nostra volta, nella buona come nella cattiva sorte, senza pensare al tornaconto personale" (Leggi, 664, 803, 804).
Si tratta, come è evidente, del concetto di karma, per cui il destino di ciascuno di noi non è che la conseguenza delle caratteristiche (pedone, regina o alfiere, chissà) del singolo.


* Leggi, 904. Anche Eraclito, nel frammento n° 79, gli fa eco. Cogliamo l'occasione per segnalare che tutti i riferimenti bibliografici presenti in questo post sono dello stesso Coomaraswamy, il quale cita anche Rûmi ("Qué feliz es el rey matado por tu torre", Dîvân, Ode 10). Interessante è pure quanto lo studioso indiano dice circa D. B. Macdonald, che, basandosi sui versi 30 e 31 dell'ottavo capitolo dei Proverbi, sostiene che gli ebrei "llegaron a concebir el hombre como parte de un juguete animado situado ante los ojos de Jehovah y que Le alegra" (The hebrew philosophical genius, Princeton, 1936, pp. 50, 134, 136).
A proposito del "cordone dorato della Legge", nella Brhadâranyaka Upanisad (3, 7, 1) - combinando il testo originale con il commento di Sâyana - si afferma: "¿Conoces esa cuerda por la cual - y ese controlador interior por el cual - este mundo y el otro y todos los seres están unidos y son controlados desde el interior, de modo que se mueven como una marioneta, realizando sus respectivas funciones?".

I passi platonici di cui sopra mostrano che il filosofo greco conosceva la dottrina del sûtrâtman ("filo spirituale"). Nel Teeteto si pone in relazione la corda d'oro dell'Iliade (VIII, 18 e successivi) col sole, al quale tutte le cose terrene sono legate, quasi con le stesse parole del Satapatha Brâhmana (6, 7, 1, 17), dell'Atharva Vêdâ (10, 8, 39) e della Bhagavad Gîtâ (7, 7).* L'immagine del sole come «asola» attraverso la quale passano tutti i fili di tutte le marionette di questo mondo appare anche in Dante, che, dopo aver dipinto il nostro luminare come "permotore de' cor mortali", afferma che "questi la terra in sé stringe ed aduna" (Par. I, 117).
Circa il buddismo, i due più importanti riferimenti alla marionetta umana (Samyuta Nikâya 1, 134 e Therîgâthâ 2, 390 e seguenti) non parlano del Burattinaio, il loro unico proposito essendo quello di mostrare come la marionetta sia il prodotto evanescente di una ferrea concatenazione causale, della quale l'io egoistico si pensa arbitro. Al riguardo, Rûmî sghignazza: "Sei un ridicolo burattino, che salta fuori dal buco della sua scatola e si presenta come il signore del paese. Fino a quando salterai? Abbassa le penne o finirai piegato in due" (Dîvân, Ode 36).
Il poeta torna più volte sull'argomento, ad esempio nell'Ode n° 13 ("chi non s'è disfatto della volontà dell'io non ha volontà"), per ribadire che chi è mosso solo dal proprio istinto animale non è in alcun modo autonomo. Platone dice che quest'ultimo viene "trascinato qua e là, verso il bene o verso il male, secondo le circostanze" (Leggi, 6441) e non diversamente si esprime Aristotele (De Anima III, 10, 433a): "El deseo produce un movimiento inexplicable (parà tò logismón); pues épizumía es una clase de deseo, y el intelecto (nous) nunca se equivoca".


* Plutarco (Moralia, 393EF) era un po' disturbato dall'idea dell’allegria divina presente nell’Iliade (XV, 355-366), dove Apollo riempie un fosso ed abbatte un muro, cosa che Omero paragona ad un gioco da bambini. Sembra irriverente dire che "Dio si dà a questo gioco (paidiá) costantemente, modellando (plátton) il mondo che ancora non esiste e distruggendolo (ápolúon) di nuovo, quando è giunto all'esistenza. Plutarco non vede che quest'opera di creazione, preservazione e distruzione (nell'induismo simboleggiate rispettivamente da Brahma, Vishnu e Shiva) sono l'essenza stessa della presenza divina, perché la vita di ogni creatura - ed infine del mondo stesso - dura solo finché Egli vivifica. In questo appunto di Plutarco sundeî si riferisce al súndemos per il quale tutte le cose sono unite con una corda ed a loro volta unite al sole, come le membra di una marionetta sono unite con una corda e questa è unita alla mano del manipolatore. Non potendo trattare qui questo aspetto della dottrina del filo dello spirito; facciamo semplicemente osservare che a) "c'è una linea retta come un pilastro che attraversa da cima a fondo il Cielo e la Terra", quasi "l’ancoraggio" del Cielo (súndemos toû oúranoû, Repubblica, 616c) e b) questa colonna di "luce" che "contiene e controlla il tragitto completo della rotazione" (cf. Mathnawî 5, 2345) è l'Axis Mundi tradizionale (skambha in sanscrito), propriamente descritto come una colonna di luce.

In effetti noi tendiamo ad identificarci nell'io della marionetta, anziché nel Sé del Burattinaio. In tal modo, "cambiammo onesto riso e dolce gioco in affanno" (Purg. XXVIII, 95-96). Vivere rappresentando la parte del giocattolo di Dio, invece, significa fare la Sua volontà e non la nostra; significa vederci non allo specchio con i nostri occhi, ma vederci da dietro e dall'alto con i Suoi occhi; significa essere spettatori, non vittime del proprio destino.
È questo il comportamento di chi, avendo visto la luce, torna nella caverna di cui parla Platone e partecipa della vita terrena. Ed è il comportamento dell'avatâra ("sceso di nuovo"), di chi può dire con Krishna che "di nulla ho ed ho avuto bisogno, tutto potevo ottenere e tutto ho ottenuto, e tuttavia sono qui, per mantenere l'ordine di questo mondo" (Bhagavad Gîtâ 3, 22-25). Altra corrispondenza tra il testo indù (stavolta 18, 47) e la Repubblica platonica (ancora nel settimo libro) è l'espressione svadharma [...] svabhâvaniyatam karma ("il proprio dovere è nel compimento dell'azione assegnata dalla propria natura"), rifratta in tò èautoû práttein, katà zúsin.
In un senso simile la parola lîlâ appare per la prima volta nel Brahma Sûtra 2, 1, 32-33: na prayojanatvât, lokavat tu lîlâkaivalyam ("l'attività creatrice di Brahma non è motivata da necessità alcuna, ma solo dal gioco").
L'enfasi batte sull'idea di un'attività 'pura' che può essere propriamente descritta come 'festiva', perché il gioco si realizza non come 'lavoro', ordinariamente operato in vista di assicurare un fine essenziale al benessere per il quale lo si opera, bensì per esuberanza: a) laddove il lavoratore lavora per quello di cui ha [bisogno], il giocatore gioca per quello che è; b) laddove il lavoro è difficile o comunque faticoso, il gioco è facile e ricreativo. In merito, si potrebbe dedurre che il gioco è non solo ricreativo, ma - a somiglianza di quello divino - tout court 'creativo'.
Il modus vivendi ottimale, insomma, è quello di 'giocare il gioco'. Il che d'altronde comporta pure il meno piacevole 'stare al gioco', se non addirittura lo spiacevole 'far buon viso a cattivo gioco'. Così è - diceva l'autore di Liolà - se vi pare. Ed anche se non vi pare.

In questo modo si viveva in ogni società tradizionale, dove i confini tra gioco e lavoro apparivano sempre assai labili: il gioco collettivo non si faceva sport o spettacolo puramente secolare, ma rito per iniziati e pertanto per 'addetti ai lavori', mentre il lavoro vero e proprio, richiedendo una "competenza" (kausalam, in termini vedici) specifica, l'esercizio della quale non poteva non esser facile, si trasformava in gioco. Così los extremos se encuentran, el trabajo deviene juego, y el juego trabajo; vivir en consecuencia es haber visto "la acción en la inacción, y la inacción en la acción" (Bhagavad Gîtâ 4, 18), elevarse por encima de la batalla, y así permanecer inafectado por las consecuencias de la acción (Brhadâranyaka Upanisad 4, 4, 23, Isâ Upanisad 5, Bhagavad Gîtâ 5, 7, etc.), no siendo ya las acciones 'mías' sino del Señor (Jaiminîya Upanisad Brâhmana 1, 5, 2, Bhagavad Gîtâ 3, 15, etc.), a Quien "no se adhieren" (Katha Upanisad 5, 11, Maitri Upanisad 3, 2, Bhagavad Gîtâ 4, 14, etc.).
Il concetto del gioco divino appare ripetutamente nel Rg Veda, soprattutto in relazione con Agni, le cui fiamme sono dette "festive" (krîlumat, 10, 3, 5), come "festivo" è il fuoco stesso, "nel suo divampare e nel suo acquietarsi" (ucca hrsyati né ca hrsyati, Aitareya Brâhmana 3, 4). E le sue lingue [di fuoco] "leccano per gioco" (lelâyamânâh, Mundaka Upanisad 1, 2, 4). "Agni lecca (pari [...] riham) il manto di sua madre", cioè il bosco. "Agni va sempre leccando (rerihat sadâ, Rg Veda 1, 140, 9) e "come si muove con la sua lingua, così lecca - rerihyate, 'lappa', 'lambisce' - sua madre" (10, 4, 4).


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Chiudiamo qui la nostra laboriosa traduzione (dallo spagnolo) di questo saggio, che avevamo tratto tempo fa da un blog oggi spirato, sia perché ci siamo accorti che il medesimo è reperibile, in italiano, nel sito Oriente e Occidente, sia perché vogliamo limitarci ai già fin troppo numerosi spunti meditabili evidenziati finora.
Il tema cruciale ci sembra quello dell'associazione tra il gioco ed il fuoco, accomunati dalla radice LIH di lîlhâ.* Partiti dalle valenze infantili ed innocue del gioco, ora ci troviamo davanti prospettive illuminanti, ma distruttive. In effetti il gioco amoroso, se non erotico, giocoso lo è indubbiamente, ma l'esito somiglia molto alla danza di Shiva, vuoi perché - come amore del Creatore nei confronti della creatura - spersonalizza e quindi annichilisce quest'ultima, che in quanto amata giunge ad identificarsi nell'Amante e vuoi perché - come amore della creatura nei confronti di un'altra creatura - fatalmente finisce col logorare l'amante, l'amato/a ed il loro rapporto, cioè l'amore [profano] stesso. D'altra parte anche il fuoco ha due aspetti, caldo (ed in qualche modo 'inferiore') il primo e luminoso il secondo. Può bruciare o rischiarare, insomma. Su ciò, il Saddharma Pundarîka (trad. H. Kern, Oxford, 1884, p. 467) domanda: "Per quale ragione la conoscenza (jñâna) fa brillare (vibhâti) la protuberanza (mûrdhnyusnîsa) del cranio?". E la risposta è fornita in parte nei testi precedentemente citati, ma meglio nella Bhagavad Gîtâ (14, 11): "Quando c'è la conoscenza, la luce brilla (prakâsa upajâyate jñânam yadâ), uscendo dagli orifizii del corpo; allora quell’Essere è compiuto (vrddham sattvam)". Non diversamente, san Tommaso scrive (Sum. Theol. III, 45, 2c) che "il fulgore corporale è naturale in un corpo glorificato, ma miracoloso in un corpo comune".


* Il Dizionario pali-inglese della Pali Text Society - annota sempre Coomaraswamy - traduce LIH con "pulire", "levigare", ma questo, al massimo, è un senso derivato; il significato originale è "leccare", e, da lì, "baciare". Circa la parola lîlhâ, la radice LIH (RIH), "leccare", basterebbe per confermare la nostra idea che è il "gioco" delle fiamme di Agni quello che fin dall'inizio ha predisposto una base naturale per l'idea di un "gioco" divino. Tuttavia, benché non abbiamo il minimo dubbio su quel che riguarda la relazione di queste idee, sembra impossibile far derivare l'equivalente lîlâ da detta radice. Lîlâ deve essere relazionato con lêlay, "infiammarsi", "oscillare", "baluginare". Si tratta di un tema che, come lîlâ, è post-vedico e che probabilmente rappresenta una forma raddoppiata di , "attaccarsi", "appoggiarsi". Non sarebbe inconcepibile uno spostamento semantico da "attaccarsi" a "giocare", se accentuiamo i sensi erotici delle parole sanscrite. D'altra parte - come si dice nel St. Petersburg Dictionary - lîlâ è stato visto spesso come una corruzione di krîdâ. Suggeriremmo che la radice è realmente , ma che la forma della parola lîlâ può essere assimilata a quella del suo equivalente krîdâ.

Infine, a proposito delle lingue di fuoco (e di nuovo dell'ambivalenza, in questo caso del 'leccare', 'lambire'), non si può non pensare agli Atti degli Apostoli (II, 3): "Apparvero lingue come di fuoco, che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro". Sul 'lambire' in particolare si potrebbe segnalare - senza pretesa veruna - l'affinità col lamb inglese ("agnello", quindi Ariete-fuoco e perciò Agni). D'altra parte, se si può parlare del divino solo negativamente, neti-neti è 'la-'la, in arabo.