Zucchina, broccolo
e dialetto: i magnifici
tre romaneschi.









Cafoni senza frontiere.*
Uno dei pochi vantaggi della globalizzazione è costituito dalla possibilità di venire a contatto, senza spostarsi dal luogo natìo, con gente di altre nazioni e di altre razze. In tal modo si scopre abbastanza agevolmente la fallacia di tante generalizzazioni etniche, linguistiche, religiose, di censo e di portafoglio. Signori si nasce, è proprio vero. A Roma come in Romagna, in Romania ed altrove.
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* Il termine «cafone» vanta più d'un etimo. Tra questi, l'ormai obsoleto caffo, ovvero "dispari" (fino a qualche decennio fa ancora usato nella locuzione «giocare a pari e caffo»), che fa del cafone un "impari", vale a dire un non pari a chi (come un nobile o un «pari», appunto) cafone non è. Un'altra spiegazione della cafonaggine, che vede il relativo esponente nell’inedita luce del dandy cittadino, anziché in quella ormai tramontata del villico di rustica progenie, è dal latino cabo (cabonis, cioè "castrato", donde «cappone»). La terza ipotesi cita il meridionale c’a funa. Sarebbe pertanto cafone colui il quale di una fune fa a) la cintura dei calzoni, b) la cavezza dell'immancabile quadrupede al seguito o addirittura c) il sostegno dell’impiccato. Quest'ultima evenienza, immortalata nel 39 della tombola partenopea come 'a funa 'n ganna, suggerisce quello che a nostro avviso è l'etimo corretto: cafir (cafirun, al plurale), cioè "ateo", in arabo. Un bel passo della sura Al-Hajj (XXII, 15), infatti, recita quanto segue: Man kana yathunnu an lan yansurahu Allahu fi addunya waal-akhirati falyamdud bisababin ila assama-i thumma liyaqta’ falyanthur hal yuthhibanna kayduhu ma yaghith ("Chiunque tema che Dio non lo aiuterà, in questo o nell’altro mondo, leghi una corda alle travi del soffitto e ci si strangoli"). ‘e cafùne con cui abbiamo esordito, insomma, song ‘e cafrùne (i "cafri"), i miscredenti, gli atei.