Tempo fa abbiamo detto che la parola «merce», pur derivando dal latino merx, è d'origine semitica. "Mercurio ha infatti - scrive il già più volte citato (qui) B. d'Ausser Berrau - una sveltezza e un'astuzia che lo rendono estraneo all'ethos indoeuropeo", ethos cui forse erano più consone forme di scambio diverse dal commercio. Alludiamo al baratto e soprattutto al dono. A quest'ultimo (che, se ricambiato, si trasforma in un baratto differito), qualora ritenuto incommensurabile, inestimabile, non quantificabile e insomma non mercificabile, si può rispondere solo con un «grazie». Al dono della vita, per esempio, che lo si pensi provenire da Dio o dai proprii genitori, non si può rispondere altrimenti.* In effetti nel dono c'è sempre un che di maestoso, non a caso «regalo» e «regale» coincidendo, lontano sia dalla meschinità del tornaconto che dalla grettezza del guadagno. E ad un re, al quale compete il diritto di grazia (cioè il dono della vita), si ha il dovere di dir "grazie".

* Così si può solo ringraziare, per il dono di un bell'aspetto (specie se si pensa ai danni che combina la chirurgia plastica). O per il dono del sangue blu, che magari in tempi plebei - se ci si accontenta di una genealogia un po' striminzita - si può pure acquistare.

Che sia questo l'etimo patrizio di «merce», intesa come do senza des? Come splendido dono? Come do «di petto» e di domine? In fondo a quel birbante di Mercurio si attribuiscono mille e una trovata, ma non l'invenzione della compravendita.

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Propriamente parlando, quindi, mercé compete al superiore e grazie all'inferiore. Questo cioè «chiede mercé» a quello e, ottenutala, ringrazia. In inglese, infatti, il soggetto "graziante" è merciful e l'oggetto "graziato" grateful. Invece in italiano «grazia», nel senso di "grazia concessa", equivale all'aulico mercé (o mercede) e si rende in francese con grâce, laddove merci è il nostro «grazie», nel senso di "grazie rese". La stessa inversione si ha nello spagnolo, che si serve indifferentemente di merced a e di gracias a.