A proposito di un sonetto di Giacomo da Lentini, abbiamo messo in risalto l'insistenza del poeta sulla E iniziale. Qui, dopo aver mostrato che - grazie ad un'opportuna rotazione di 90° - la epsilon (già e),* l'omega, il numero tre ed il primo segno zodiacale non sono che varianti del motivo della doppia spirale di cui s'è già trattato, cediamo la parola a Plutarco (dal suo La «E» di Delfi).
* La quinta lettera è un vero e proprio ierogramma, la sua doppia spirale potendo condensare l'8 ed il 3, la ʒ e l'ɷ, il segno dei Pesci e quello dell'Agnello, l'inizio e la fine (attraverso il centro), insomma la clessidra dell'alfa e dell'omega (attraverso l'ombelico dell'omicron).
En passant, si direbbe che la mente umana - anche quella sedicente laica - sia vincolata a schemi ultraterreni: nell'ambito informatico, ad esempio (al quale s'è già fatto riferimento col codice cromatico #000000, mirabilmente attribuito al nero), i bit procedono per multipli di 8 (16, 32, 64, 128, ecc.), numero sacro che nella tombola napoletana pertiene alla Madonna.

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"Noi crediamo che la E si distingua dalle altre lettere, non per il significato, non per la forma e non per la pronunzia, ma che sia onorata per il suo esser segno di qualcosa di grande e di sovrano, in rapporto all'universo, cioè del numero cinque (dal quale i saggi hanno tratto il verbo pempazein - o 'contare per cinque' - come sinonimo puro e semplice di 'contare'). [...] In effetti ogni numero si classifica in pari ed impari: l'unità è partecipe, in quanto indifferenziata, di entrambi (e perciò, aggiunta che sia, rende pari il numero impari, ed impari il numero pari); il due è il primo della serie dei pari e il tre è il primo della serie degli impari; il cinque, sicché, nasce dall'addizione del due e del tre. A buon diritto, quindi, il cinque è onorabile, essendo il primo numero costituito dal primo pari più il primo impari.
Il cinque è altresì chiamato 'numero nuziale' in virtù dell'analogia del numero pari con il sesso femminile e del numero dispari con il sesso maschile. Infatti, nelle divisioni dei numeri in parti uguali, il numero pari, ripartendosi perfettamente, lascia in certo senso un principio recettivo e uno spazio vuoto; invece, nel numero dispari che subisca la stessa operazione v'è sempre un resto di mezzo, un residuo parziale della divisione stessa. Perciò il numero impari è più fecondo dell'altro; e, nella mescolanza, domina sempre e mai è dominato; poiché in nessun caso dalla somma dei due nasce un numero pari, ma, in ogni caso, un dispari. Inoltre, la differenza tra pari e impari si rivela ancora di più quando l'uno o l'altro si somma e si compone con se stesso: poiché nessun numero pari, convenendo con un pari, può produrre un dispari e così evadere dalla sua propria natura, poiché è, per sua propria debolezza, infecondo e incompiuto; invece i numeri dispari, mescolati con dispari, producono molti numeri pari, poiché spingono la loro fecondità in ogni direzione.
[...] C'è anche da ricordare che il cinque è stato chiamato altresì 'natura' per il fatto che, moltiplicato per se stesso, termina sempre con se stesso. In realtà, come la natura si riprende il frumento nel suo aspetto di seme e lo chiude nel suo seno e lo assoggetta a un'infinità di trapassi, in figure e forme attraverso le quali conduce l'opera al suo termine, ma, a coronamento di tutto, fa spuntar fuori di nuovo il frumento e restituisce al termine di tanto travaglio il chicco primitivo, così, mentre i rimanenti numeri, allorché si moltiplicano con loro stessi, vanno a finire in altre cifre, il cinque e il sei soltanto, quante volte siano moltiplicati ciascuno per se stesso, altrettante volte si riproducono e si serbano. Infatti sei moltiplicato sei dà trentasei; e cinque moltiplicato cinque dà venticinque. Osserviamo ancora, quanto al sei, che solo quando esso è elevato al quadrato, produce se stesso; invece per il cinque, oltre al fatto che si comporta allo stesso modo per moltiplicazione con se stesso, ha una sua particolarità di addizione: di produrre cioè alternativamente o una decina o un numero terminante per cinque. E questo si verifica sino all'infinito. È un numero che imita la causa prima che ordina il cosmo.
Mi sono dilungato più del dovuto; ma è chiaro che in Delfì si palesa un'affinità tra il numero cinque
e il dio al quale il santuario è dedicato.*
Andando, per esempio, a ciò che è supremamente caro al dio, vale a dire alla musica, non crediamo forse che questa partecipi del cinque? Infatti lo studio dell'armonia, nella sua totalità, per così dire, verte sugli accordi. Ora, che questi siano cinque e non più lo prova il ragionamento. Poiché tutti gli accordi trovano la loro origine nei rapporti numerici: c'è il rapporto sul tipo 'uno più un terzo', che corrisponde all'accordo di quarta, c'è il rapporto sul tipo 'uno più un mezzo', che corrisponde all'accordo di quinta; c'è il rapporto sul tipo 'due unità' che corrisponde all'accordo perfetto, cioè l'ottava; c'è il rapporto sul tipo 'tre unità' che corrisponde all'accordo di ottava più cinque semitoni; e c'è, infine, il rapporto quattro unità, che corrisponde all'accordo della doppia ottava. Ma, anche a voler trascurare tante altre considerazioni di questo tenore, possiamo sempre rifarci all'autorità di Platone: questi afferma, sì, l'unità del mondo; ma se oltre a questo ve ne siano altri e questo non sia il solo, questi mondi devono essere cinque, per Platone, e non più di cinque. D'altronde, anche qualora questo nostro mondo sia unico nel suo genere, come pensa Aristotele, pure quest'unico è costituito in certo senso, e formato di cinque mondi: dei quali l'uno è quello della terra, l'altro, dell'acqua, il terzo e il quarto, rispettivamente, dell'aria e del fuoco. Quinto è il cielo. Chi lo chiama 'luce', chi 'etere' e chi 'quintessenza'; questa sola, tra i corpi, è dotata di un movimento circolare, per natura, non per costrizione né per casualità. Perciò Platone, avendo osservato le cinque figure più belle e perfette tra quante ve ne siano in natura, cioè la piramide, il cubo, l'ottaedro, l'icosaedro e il dodecaedro, fece rientrare in ciascuna di tali figure, in modo appropriato, un singolo mondo.

* I saggi, per nascondere alla folla il loro pensiero, dànno al fenomeno della trasformazione in fuoco il nome di Apollo per la sua unicità e il nome di Febo per la purezza e incorruttibilità; ma quando il mutamento del dio trapassa in aria e acqua e terra e stelle e nascita di piante e di animali e si esprime in ordinamento cosmico, i saggi parlano per enigmi di questo accadimento e cambiamento, come di un certo spasimo e smembramento; e fanno i nomi di Dioniso, di Zagreo, di Nyctelio e Isodete, per esprimere questo divenire; e parlano di morti e sparizioni, e poi di resurrezioni e rinascite. Cantano, anzi, a Dioniso, i ditirambi, canti colmi di passione e frenetici di contorcimenti, che esprimono il vagabondaggio e lo sviamento. Ond'è che Eschilo dice: «A Dioniso s'addice il ditirambo, che l'accompagni ognora tripudiante. Ad Apollo, invece, il peana, ritmo pacato e sapiente». Mentre Apollo è rappresentato, in pitture e sculture, immune da vecchiezza ed eternamente giovane, Dioniso si presenta in molteplici aspetti e forme. Insomma, Apollo è considerato uguale, ordinato, attento, puro; Dioniso, per contro, disuguale, irregolare, sempre con una punta di scherzo, d'insolenza, di alternanza tra serietà e follia. Così è colto l'elemento caratteristico e proprio dell'una e dell'altra trasformazione dell'unico dio. Poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio plebeo di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuol essere uno, come l'Uno vuol essere ente.

Non mancano altresì quelli che mettono in correlazione le facoltà dei sensi - che sono ugualmente in numero di cinque - con quei primi elementi. I viventi non hanno altri sensi, fuori di questi cinque; e il mondo non ha altri elementi semplici e puri, oltre le cinque essenze. Non sanno di prodigio tali ripartizioni e collegamenti tra l'una e l'altra forma del cinque? Coloro che han per sacro il numero quattro insegnano, a ragione, che ogni corpo trae nascimento in virtù di un rapporto con esso. In realtà, per ottenere un solido qualsiasi, occorre prendere l'altezza e aggiungere a questa la larghezza e la lunghezza; ora, la lunghezza presuppone un punto, il quale rientra nell'ordine dell'unità; la lunghezza senza larghezza è detta linea e corrisponde al due; il movimento della linea in larghezza produce la superficie: eccoci al tre; aggiunta che sia a queste l'altezza, il processo approda al solido, attraverso quattro elementi. Così, è chiaro a chiunque che la tetrade spinge la natura fino a questo punto, ma non oltre, cioè sino a che i corpi siano completati e presentino una massa tangibile e ferma, ma poi li lascia privi di ciò che più importa. Mi spiego: l'inanimato è, per esprimerci semplicemente, orfano, un figlio di nessuno, imperfetto e incapace, quando l'anima si rifiuta di avvalersene. Ma il movimento, ovvero la disposizione che introduce l'anima nei corpi, perfezionandone così la natura, si attua nel trapasso al cinque. E così il cinque acquista un valore ben più importante del quattro, così come il vivente si distingue per dignità dall'inanimato. A tali e tante proprietà di questo numero va aggiunta altresì la sua nobile formazione: non quella, già esposta, originata dalla somma del due e del tre, ma quella originata dalla somma del primo quadrato con l'unità primordiale. Infatti, l'unità è il principio di ogni numero; la tetrade è il primo quadrato: da queste deriva il cinque, come dalla unione della forma e della materia attingenti il loro termine. Anzi, poiché alcuni, a ragione, pongono anche l'unità come quadrato, in quanto elevata alla seconda potenza risulta ugualmente se stessa, il cinque, allora, nasce altresì dalla somma dei due primi quadrati, senza perdere, così, la superiorità della sua nobile origine". 

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A proposito del monoteismo
di qualsiasi religione autentica, su Apollo-Sole Claudio Mutti - ne La dottrina dell'unità divina nella tradizione ellenica - annota quanto segue. «Secondo un procedimento ermeneutico basato sul valore simbolico degli elementi di cui un vocabolo è costituito, il nome Apollon viene inteso come composto da a- privativo e da polýs, pollé, polý, "molto"; quindi: "senza molteplicità". Il nome Ieîos è messo in rapporto con heîs, "uno". Foîbos, etimologicamente connesso con fáos, "luce", significa "lucente, puro", quindi "non misto". La persona divina di Apollo, insomma, è simbolo del principio uno ed unico della manifestazione universale, è il Supremo Sé di tutto ciò che esiste. Sulle tracce di Plutarco, Numenio di Apamea (II sec.) interpreta Délphios, epiteto di Apollo, come un antico vocabolo greco che significa "unico e solo"».