A proposito di Sole e di Luna, lui Apollo-Dioniso (il sobrio e l'ubriaco) e lei Selene-Ecate (l'angelo e il diavolo), cerchiamo di precisare il concetto di ambivalenza del simbolo.* A noi pare non trattarsi tanto di ambivalenza, quanto piuttosto di mutevolezza del punto di vista [dal quale si osserva il simbolo]. In ambito numerico, ad esempio, si sa bene che il numero dispari è maschile ed il pari femminile. Eppure, gerarchicamente, ogni numero è maschile nei confronti del successivo e femminile nei confronti del precedente: nel modello familiare, ciò vuol dire che il due (la madre) è virtualmente maschile nei confronti del tre (il figlio o la figlia), ma femminile nei confronti dell'uno (il padre); analogamente, il tre (il fratello o la sorella maggiore) è maschile nei confronti del quattro (il fratello o la sorella minore) e via di seguito, in un vicendevole scambio di ruoli.

* Prendiamo l'esempio dei due luminarii, come si suole definirli nel lessico astrologico, perché la loro alternanza - sia quella vicendevole (tra notte e giorno) che quella intrinseca (tra una fase e l'altra) - riassume tutte le alternative possibili. Anche gergalmente, le due esclamazioni più diffuse sono «perbacco» e «perdiana».

Ancora, per un esempio cosmologico, la pioggia è femminile da un lato e maschile dall'altro. Femminilmente, è acquea e discendente (oltre che "umile, preziosa e casta"); mascolinamente, feconda la terra. È femminile in rapporto al cielo, dal quale discende, ma maschile in rapporto alla terra, sulla quale si adagia. Viceversa il fumo è maschile, in quanto aria calda, nel suo salire dalla terra al cielo. Ne consegue - sempre simbolicamente - la femminilità dell'aria fredda.
Non si tratta perciò di ambivalenza, come talvolta si è costretti a leggere ("il serpente è un simbolo malefico, ma talvolta anche benefico"), perché ogni cosa, dal punto di vista terreno, appare rovesciata rispetto al punto di vista celeste. Ed anche dal solo punto di vista terreno, non c'è mai un punto di vista unico: chi gioca al lotto spera nella fortuna, ma chi sta in barca nulla teme quanto la fortuna («fortunale», nel gergo marinaresco moderno).

Il vocabolo «fortuna» è infatti asettico, di per sé, non a caso augurandocisi buona fortuna (good luck) per scongiurare la mala fortuna (bad luck). Eppure spesso ci consideriamo tanto sfortunati (unlucky) da ridurci a pensare benevola la fortuna tout court e malevola la sua assenza.

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Sulla cecità - non ambivalenza, quindi - della fortuna ci sarebbe parecchio da dire. Ma basta limitarci alla differenza tra chi crede nel caso e chi no, quest'ultimo sapendo la parola «fortuna» provvidenziale sinonimo di fatum ("Che giova ne le fata - Inferno, IX, 97 - dar di cozzo?"), ovvero di karma.
Tra coloro che non credono al caso, credendo perciò solo nella vita presente, va forse citato anche il sempre machiavellico autore de Il Principe (cap. XXV, interamente dedicato al problema). "Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano".
Chissà. Se la fortuna è donna, "mobile qual piuma al vento", come la mettiamo con le irrinunciabili pari opportunità? Se chi tenta la fortuna è donna a sua volta, safficheggia? Se un maschio aborrisce l'uso della forza, si condanna alla sfiga (o sfica, della quale abbiam detto qualcosa anche qui)? Tanto più che costei, come è noto, a differenza della fortuna ci vede benissimo.
Chissà. D'altro canto, forse (in latino forsan, forsitan, fortasse, fortassis, forte), l'uso della forza può rivelarsi fortunoso. In tanta incertezza, sicché, anche l'etimo si fa mutevole e cangiante (come il simbolo di cui sopra), fino a tirare in ballo il o la proteiforme Vertumno-Vortumno-Voltumna-Veltuna, divinità etrusca che presiedeva al cambio di stagione.