L'opera di sovversione è talmente vasta che, ogni qualvolta ci si mette di buzzo buono a stilarne il catalogo, si finisce con l'arrendersi. E allora accontentiamoci della voce in cui, di volta in volta, ci si imbatte.
Oggi è il turno dei cosiddetti «utilitaristi», Bentham, Malthus e Ricardo. Utili idioti, indubbiamente, ma utili a chi? Certo, non ai più. Il loro stesso utilitarismo è l'utilitarismo dei meno.* Si tratta in realtà di teorie impostesi ed imposte per scelta politica, perché nessuno studioso onesto ci crede, a quelle castronerie. Però nessuno parla, per non perdere la pagnotta.

* A proposito del più e del meno, si dice che la democrazia consista nell'elezione, da parte dei più, di qualcuno scelto dai meno, e, l'oligarchia, nell'elezione, da parte dei meno, di qualcuno scelto dai meno medesimi. Inappuntabile. Per giunta, tertium non datur (essendo l'aristocrazia, la dittatura e la monarchia - nell'orizzonte moderno, esclusivamente terreno - mere variazioni sul tema dell'oligarchia). La democrazia, sicché, è un buon modo per «salvare la faccia» dei meno (a danno del culo dei più, ça va sans dire), ove e quando la cosa sia utile. Negli altri casi, si elegge più «sfacciatamente» un fenomeno quale quello rappresentato dai più recenti primi ministri della penisola.

Complottismo? Sì e no. Non crediamo alla cospirazione massonica (nonostante quanto scritto qui). E neppure a quella finanziaria.* Non ci crediamo perché c'è un aspetto, nell'opera di sovversione con cui s’è esordito, che non si accorda con tutti gli altri. Vogliamo dire che, mentre questi ultimi sono riconducibili al favoreggiamento del peccato (il che spiega l'ostilità di ieri verso la Chiesa e di oggi verso l'Islam), ovvero all'incremento del disordine collettivo ed individuale, utile ai meno per accrescere la dipendenza dei più dai cosiddetti «servizi», ce n'è uno che, a rigore, dovrebbe essere politicamente inutile.

* Non a livello di regia ultima, almeno, perché la terza casta (cui appartengono coloro che non possono qualificarsi né come clero, né come nobiltà) è assurta al potere non per merito - o demerito - proprio, ma solo grazie al favore dei tempi (sul che, si veda anche qui). La quarta ed ultima età, infatti, corrispondendo la prima (quella aurea) ad un'umanità non suddivisa in caste, è quella che pertiene alla terza casta, artigianale e mercantile. Analogo rilievo va fatto sulla defezione delle prime due caste. Tutto ciò, naturalmente, in una prospettiva temporale abbastanza estesa, che permetta di capire, cioè, come un'alba invernale non sia identica alla primavera. In altri termini, che permetta di capire come un periodo luminoso quale il medioevo (paragonato ad un'alba invernale) si situi comunque in un'epoca oscura. Fuor di metafora, per concludere, è una ben misera cospirazione quella di chi, al tramonto, s'arrabatta e s'intriga per far calare la notte.

Un aspetto, dicevamo, che non si accorda con tutti gli altri. Ci riferiamo alla morte in stato di incoscienza. E spieghiamoci: se la vita in stato di incoscienza, come la conduciamo oggi, è politicamente utile, che cosa gli importa, al governante, di farci pure morire rimbambiti da farmaci e sedativi? Se invece pensiamo a Satana, quale artefice della cospirazione, la cosa acquista un senso. Quanta gente si salvava l'anima, fino ad ieri, in punto di morte? Era il momento privilegiato, l'attimo perfetto, la scena culminante [del finale travolgente]. E Satana si mordeva le mani.
Oggi, invece, dopo averci fatto condurre un'intera vita nel peccato, è riuscito anche ad impedirci quel minimo di lucidità propizia al pentimento finale. Se uno chiede a san Gùgolo di cercare la stringa «morire in casa», ottiene un quadro abbastanza deprimente.

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"La civiltà industriale - osserva M. Fini in Questa società uccide anche la morte - è l'unica che non abbia elaborato una propria cultura nei confronti della morte, per assimilarla, per metabolizzarla e, alla fine, per accettarla, posto che, sia pur con qualche dilazione dovuta ai marchingegni tecnologici, si continua pur sempre a morire, oggi come ieri. A differenza dell'uomo dell'epoca preindustriale, che accettava la morte come un fatto inevitabile, inserito nel ciclo vitale «seme-pianta-seme», che è il ciclo della natura, consapevole che il mondo dei vivi è intimamente correlato a quello dei morti, nell'eterno passar di testimone fra generazione e generazione, noi abbiamo seguito un'altra via. Abbiamo rimosso la morte. L'abbiamo interdetta. Proibita. Scomunicata. Dichiarata pornografica. La morte è il «grande vizio» dell'era moderna, quello che davvero «non osa dire il suo nome».
La scomunica che la società tecnologico-industriale ha lanciato alla morte emerge da una serie di elementi: l'assenza sui quotidiani e sui rotocalchi dell'argomento «morte» sostituito, caso mai, da quello della «malattia» (da cui, va da sé, si guarisce e comunque, prima o poi, grazie alla medicina tecnologica, si guarirà); il nascondere al morente e al malato inguaribile la gravità del suo stato, [...] la clandestinità dei funerali, [...] la pressoché totale scomparsa del lutto ed il grande imbarazzo di fronte a coloro che ancora lo portano, come per una esibizione indecente; fino al costume americano dei funeral homes dove, imbalsamato, il viso ritoccato da un sapiente maquillage, le mani perfettamente curate, i capelli vaporosi, infiocchettato, il morto-quasi-vivo riceve a suon di musica i parenti e gli amici. A questo verboten dato alla morte appartengono anche gli odierni cimiteri. Nell'Europa dell'ancien régime i cimiteri stavano al centro del villaggio o della città, ed erano luoghi di raccoglimento, ma anche di mercato, di chiacchiera, di gioco e, insomma, di vita. È proprio all'epoca dei Lumi che ha inizio la cacciata dei cimiteri dal centro delle grandi città e la costruzione di necropoli periferiche e possibilmente fuori dalla vista.
A me, i nostri cimiteri fanno orrore. Quello di Musocco, a Milano, sembra proprio una «città di Dite», con quelle mura altissime che paion fatte per impedire ai morti di scavalcarle e di venire a turbare i nostri sonni. Non c'è nessuna serenità nei nostri cimiteri (parlo sempre delle città; nei paesini c'è ancora una dimensione umana, nella vita, e quindi, anche nella morte). Quando viaggio all'estero vado sempre a vedere i cimiteri, non per necrofilia, ma perché sono un segno importante della cultura e della mentalità di un popolo. Mi piace il cimitero di Tunisi, alto sulla collina, come Spoon River, senza mura e recinzioni. Mi piacciono i cimiteri protestanti di certe cittadine del nord Europa, dove le tombe sono raccolte intorno alla chiesa (e mi par giusto, perché, per chi ha l'enorme fortuna, o forza, di credere, è nella chiesa che vengono simbolizzati gli eventi essenziali della vita: la nascita, il matrimonio, la morte). Mi piacciono moltissimo i cimiteri di certi paesi della Corsica, perché i corsi amano la libertà e seppelliscono i loro morti dove gli pare e piace, sotto casa, nel giardino, in un prato, nel bosco. Poiché però alla lunga le tombe tendono a raggrupparsi più o meno negli stessi posti ti può capitare, in Corsica, di percorrere in macchina una strada che ha ai suoi lati, da una parte e dall'altra, cippi e tumuli funerari. È una cosa che normalizza la morte, la rende domestica. [...] Guardo le iscrizioni sulle tombe, quasi tutti ragazzi di poco più di 20 anni. La cosa mi commuove, ma non provo pena per loro. Anzi li invidio. Perché ho ben in mente ciò che, attraverso la voce di Menandro, canta la sapienza antica: «Caro agli dei è chi muore giovane»".

“L' ultimo seminario dell'Accademia pontificia - continua M. Fini in Ci espropriano perfino la morte - è stato dedicato alla dignità del morente. In quest'Italia scristianizzata, laica, festivaliera, cialtrona e scaramantica solo i preti, ormai, hanno il coraggio di parlare della morte.
[...] Un tempo si moriva in famiglia, circondati dai propri affetti; si era i padroni e i protagonisti della propria morte. Ha scritto Philippe Ariès, autore di una Storia della morte in Occidente: «La parte principale toccava al morente stesso. Egli presiedeva, senza mai incespicare, perché sapeva come comportarsi, tante volte essendo stato testimone di simili scene. Chiamava ad uno ad uno i suoi parenti, i suoi familiari, i suoi domestici fino ai più umili. Diceva loro addio, chiedeva perdono, dava loro la benedizione. Investito di autorità sovrana dall'avvicinarsi della morte, impartiva ordini, faceva raccomandazioni. L'uomo del medioevo e del rinascimento teneva a partecipare alla propria morte, perché vedeva in essa il momento eccezionale in cui la sua individualità riceveva la forma definitiva. Non era padrone della propria vita che nella misura in cui era padrone della propria morte. La sua morte apparteneva a lui e a lui solo». Oggi invece siamo stati espropriati anche della nostra morte. I padroni ne sono diventati i medici, gli scienziati, i tecnici dell'equipe ospedaliera. Il morente, intubato, monitorizzato, computerizzato, irto d'aghi, affidato a macchine, è un oggetto, una povera cosa umiliata, che non ha alcuna voce in capitolo, la cui agonia può essere prolungata per mesi e per anni o, viceversa, può essere troncata innaturalmente perché il suo corpo serve da magazzino di pezzi di ricambio. La dignità e l'individualità del morente vengono calpestate senza scrupoli. In questo grand guignol, in questo museo degli orrori medico-tecnologico-scientifici che sono diventati gli ultimi tempi della nostra vita, nasce il problema, del tutto nuovo, dell'eutanasia. Prima la questione non si poneva. Le agonie erano dolorose, ma brevi: il tempo di fare le cerimonie sopradescritte e poi si rendeva, come suol dirsi, l'anima a Dio. La peste, la febbre gialla, il vaiolo, la spagnola erano malattie pietose a paragone di quelle moderne, cancro in testa. Inoltre, e soprattutto, la medicina tecnologica come può, per i suoi scopi, degradare a cadavere un uomo vivo, così può, sempre per i suoi scopi, tenere in vita un cadavere. Il problema dell'eutanasia sorge perché, in forza di macchinari speciali ed eccezionali, l'uomo viene tenuto in vita artificialmente”.