A corredo ed arredo di quanto scritto qui sui 'giganti', dallo spesso citato De Verbo Mirifico, di Bruno d'Ausser Berrau, trascriviamo quanto segue. Si tratta di un piccolo excursus calendariale - a volo d'uccello, come suol dirsi - sugli scorsi sei millenni, con qualche risvolto geopolitico e con l'immancabile conforto del vocabolario.

L'autore ci perdonerà alcune lievi modifiche, che speriamo irrilevanti, di natura per lo più grafica.

Il nostro modo di pensare, dopo la fenomenologia di Hegel, ci fa opporre storia a natura, poiché vediamo la prima inserita nel divenire della scienza e del sapere. Nel pensiero tradizionale, invece, il concetto di fysis è molto più ampio: comprende ogni aspetto del manifestato, annullando così la cesura tra i due flussi; con la conseguenza che, ad esempio, storia e geografia si trovano ad essere rette dalle stesse leggi.

Limitandoci al Manvantara, che è il ciclo di una umanità (64.800 anni), sembra importante sottolineare che esso è sottoposto a due principali scansioni: la prima ne comporta la divisione in quattro parti diseguali - gli yugas - stanti tra loro nelle stesse proporzioni della Tetraktys (4-3-2-1) e dove la durata d'ogni yuga va raccorciandosi a mano a mano che si proceda nel tempo (25.920, 19.440, 12.960, 6.480 anni). L'altra invece lo seziona in cinque parti eguali, ognuna corrispondente ad un semiperiodo della precessione degli equinozi (12.960 anni) ed ognuna relativa alla fase di reggenza di una delle cinque grandi razze componenti questa umanità. Poiché l'orologio cosmico che ritma il ciclo non può essere - per la sua stagionale e celeste evidenza - che la suddetta precessione (25.920 anni), un notevole ruolo nelle determinazioni qualitative del tempo lo hanno pure le stazioni (ognuna, 2.160 anni) rappresentate dai dodici asterismi zodiacali attraverso le quali transita, alla velocità di un grado ogni settantadue anni, il punto vernale. La cesura tra un Grande Anno (Mahâyuga) ed il susseguente ha la caratteristica d'essere sempre segnata da un cataclisma provocato dallo scatenarsi di uno degli elementi tradizionali.*
Quello attuale è l'ultimo Grande Anno del Manvantara ed è appannaggio della razza bianca discesa dalle zone circumpolari, dove si trovava "in sonno", quale erede diretta della Tradizione primordiale mentre, a minori latitudini, si succedevano civiltà che, pur sempre espressione della Religio una, ne esprimevano di volta in volta le specifiche possibilità, in rituum varietate,** quali sensibili apparenze della diversa natura delle razze e delle loro peculiari caratteristiche, estrinsecate nella dominanza di epoche e terre diverse.

* Sono i Mahâbûtas o "grandi elementi" quelli che determinano la relazione: chiaramente, il Diluvio (circa -11.000) è correlato all'acqua, mentre la finis mundi lo sarà col fuoco (dies irae dies illa, testet David cum Sibilla, lo testimoniano cioè l'ebraismo e la tradizione classica). In fatto di terminologia si può precisare che in quest'ultima il Grande Anno è il Magnus Annus Platonis, mentre per i caldei il Manvantara s'identifica al regno di Xisuthros, la cui durata è appunto di 64.800 anni.

** La coscienza di quest'unità di fondo di tutte le forme tradizionali, adombrata dalla comunità di lingua poi distrutta dagli eventi miticamente rappresentati nella costruzione della Torre di Babele (Gen.11.4), giunge sino all'inizio del Kaly Yuga: -4.480.

La discesa verso sud della razza bianca non avvenne senza problemi ed i principali tra essi dipesero dall'incontro-scontro (circa -8.000) con i rappresentanti della razza rossa,* stanziati principalmente nelle zone occidentali e costiere del continente europeo, nonché in quella fascia di terre che va dal Magreb al Caucaso ed alla Mesopotamia.** Altrettanto importante era la presenza umana esistente sull'altro lato dell'oceano; il motivo di questa distribuzione dipendeva dal risultare l'arcipelago atlantideo metropoli e centro d'irradiazione di tale civiltà; escludiamo ora dal discorso le culture americane, perché lontane dagli eventi qui esaminati.
Questi brevi cenni sono però sufficienti per capire come sia proprio a motivo della natura talassocratica dell'impero di Atlantide che i popoli nei quali quel tipo d'eredità prevale abbiano il Diluvio nelle loro leggende fondatrici, mentre nelle stirpi di più diretta filiazione iperborea, facenti capo ad una cultura di agricoltori-allevatori, sia invece ricorrente il racconto di un brusco incrudimento del clima, a motivo del quale, a seguito di gelo e tempeste di neve, fu intrapresa una penosa migrazione in cerca di terre più vivibili.*** Entrambi gli eventi sono però epifenomeni di uno stesso immane cataclisma, dalle conseguenze veramente planetarie.

* Quanto accadde è, in qualche modo, accennato da Platone (Tim. 24e, 25d; Crit.108e) sebbene nel suo racconto la guerra tra Atene e l'Atlantide possa sembrare precedere la catastrofe. Inoltre agli stessi fatti sono da ricondurre le narrazioni, presenti in tutti i miti indoeuropei (e no), relative ai bellicosi rapporti con i giganti. Quanto alla datazione indicata, è significativo che, in Scandinavia, sia frequente il reperimento di incisioni rappresentanti piovre e con questo ottopode spesso, in certe culture, si è voluta indicare la stazione zodiacale da noi conosciuta come Cancro: ebbene, il punto vernale sostò in detto asterismo negli anni intercorrenti tra il -8700 ed il -6540.

** L'Africa è presente a più titoli per questo retaggio: ad es., secondo alcune versioni, le Esperidi (da espera, sera) vivevano sul monte Atlante in Mauritania, ma anche nell'Esperia etiopica, ovvero l'Eritrea (da ereuqw, "arrossisco"; lo stesso 'abissino', abishà, è "rosso").

*** Chiarissimo è il racconto iranico dell'abbandono dell'Airyanem Væjah, "le berceau - così H. Corbin - ou germe des aryens", per le grandi tempeste di neve che lo investirono.

Tra i tanti argomenti che possono sottolineare quell'antica rivalità, basti pensare a come, per i popoli indoeuropei, nei quali ha invece dominanza l'eredità iperborea e continentale,* solo la terra sia la iustissima tellus e quindi unico luogo del diritto (della Lex, del Nomos - anche nel senso alto di Dharma - dell'intera, presente umanità): sulle onde nessuna traccia permane, "sulle onde tutto è onda". Il mare è libero perché non ha carattere (da carassein, "incidere") come, in effetti, non lo ha il mondo contemporaneo dove, di nuovo, c'è l'universale e incontrastato dominio di un impero marittimo. Ciò, fino a quando non torneranno i "saturnia regna" (nec nautica pinus mutabit merces,** [...] omnis feret omnia tellus); coerentemente, per l'Apocalisse (21.1) non solo non ci sarà più navigazione, ma sulla pura terra avvenire non ci sarà proprio più mare: thalassa ouk estin eti. Del resto altri racconti attribuiscono alla discesa ciclica uno spazio ognor crescente pel mare: solo 1/7 dell'intera superficie agli inizi e 1/4 nel periodo atlantideo, mentre ai nostri giorni la proporzione si è addirittura invertita: 4 a 1.

* Il mare è sconosciuto in indo-europeo. Significativi i teonimi ad esso relativi: Neptunus, in origine, presiede a fiumi e fonti e soltanto in seguito, per assimilazione a Poseidòon, estende al mare il suo dominio. Poseidòon, dapprima legato anch'egli alla terra, ha origini più complesse che analizzeremo tra poco.

** Virgilio, Buc. egl. IV; per tutto questo cfr. C. Schmitt, Il Nomos della Terra (Adelphi, 1991).

L'ultimo Grande Anno, che, in epoche tanto remote, stava per iniziare era così segnato dagli esiti di questi due principali ed in un certo senso alternativi retaggi. Esiti poi reperibili in tutte le civiltà successive, sia sul piano della loro organizzazione tradizionale, sia su quello della composizione etnica dei popoli vettori. Le differenze erano, ma sono ancor oggi individuabili, in entrambi i livelli, grazie alla maggiore o minore presenza degli elementi entrati nella composizione. A complicare le cose, per la precisione, si deve aggiungere come la presenza di ciò ch'era sopravvissuto da forme cultuali appartenute ai periodi di dominanza delle razze, nera (meridionale: 3° Grande Anno) e gialla (orientale: 2° Grande Anno), avesse un ruolo residuale, ma non indifferente, al momento della formazione di alcune di queste culture.
Senza allontanarci troppo dal tema principale, sembra infine il caso di rispondere ad alcuni interrogativi che, per quanto ci risulta, non sono stati sufficientemente ascoltati da alcuno con disponibilità (quando, al contrario, la risposta è decisiva per iniziare a ricomporre un puzzle altrimenti irrisolvibile). Innanzitutto, l'uso della terminologia «razza bianca» e «razza rossa» può generare equivoci, dovuti all'accezione contemporanea in cui la prima è intesa e, di conseguenza, al sorgere di qualche perplessità riguardo al farsi un'immagine della seconda. Le differenze tra loro possono oggi non sembrare eccessive, ma dobbiamo tener conto del melting pot di cui si sono qui tratteggiati soltanto gli inizi e che, da tempo, si sta ulteriormente complicando. Inoltre, mentre per la razza bianca l'isolamento ne aveva permesso l'omogeneità,* per quella rossa l'elemento cosmopolita, collegato all'impero ed al dominio dei mari e di terre lontane, doveva aver già avuto inevitabili conseguenze. Oltre alle obiettive difficoltà scientifiche presenti nell'affrontare il tema razziale, un approccio il più possibile neutro è via inusitata, non godendo né delle simpatie della politically correctness, né di quelle del punto di vista avverso, perché, per prima cosa, si deve affermare che i popoli d'origine europea - o, meglio, ciò che comunemente viene ai nostri giorni designato quale razza bianca, creando così qualche confusione col valore originario di tale denominazione - sono, nel loro insieme, il frutto di mistioni assai complesse: in primis con la razza rossa, la quale, a sua volta, dagli antropologi non è nemmeno considerata quale razza a sé stante, ma è ritenuta soltanto una semplice variante. In ogni modo essa, all'epoca della giunzione, veicolava, per i motivi già detti, molte altre componenti.

* Il matrimonio indoeuropeo era di natura endogamica, essendo caratterizzato dall'unione di cugini incrociati; pertanto le specificità psichiche e fisiche di un clan erano fortemente delineate e mantenute nel tempo. Un esempio estremo ne è stato lo xvêdhvaghdas, ovvero l'unione tra consanguinei immediati, considerato segno di grande religiosità dal mazdeismo iranico, ma motivo di mai sopito scandalo per greci e romani.

In definitiva si può affermare che il prototipo del tipo razziale bianco e linguisticamente indoeuropeo sia rappresentato da quello che oggi è noto come tipo nordico;* nell'induismo vedico Indra è il dio biondo (hàri), mentre per la pelle (avendo presente come i nordici, nella percezione cromatica degli arabi, siano detti "uomini blu",** a ragione del trasparire del sangue), è rilevante l'attribuzione di questo colore a Vishnu ed a Krishna.
Da quanto detto sinora, è evidente come l'eredità iperborea sia in prevalenza riscontrabile presso i popoli della famiglia linguistica indoeuropea ed in particolare - come documentato da B.G. Tilak in The arctic Home in the Vedas (Poona & Bombay, 1903) - presso gli indù. Avendo ben presenti i tipi umani dominanti nel sub-continente, è anche palese come, al contrario, l'elemento etnico non sempre segua gli stessi rapporti d'incidenza percentuale di quello culturale.

* Per pervenire alla determinazione del tipo si può disporre dei ritrovamenti antropologici e della testimonianza delle fonti letterarie e figurative; "cette seconde source a l'avantage de ne pas dépendre d'une hypothèse préalable. Or, ces témoignages concordent pour désigner la race nordique, sinon comme celle de l'ensemble du peuple, au moins comme celle de sa couche supérieure (J.Hadry, Les Indo-Européens, P.U.F. 1981). Naturalmente qui ci si riferisce ad una fase avanzata, ma non recente, del movimento della razza dalla sede originaria.

** Cfr. la definizione di «sangue blu» per caratterizzare gli aristocratici, i quali - a ragione delle vicende storiche relative all'origine delle moderne nazioni europee - sono spesso de couche germanique.

L'eredità tradizionale atlantidea è invece più presente presso i popoli di stirpe semitica; tra gli ebrei in particolare, nonché in parte tra i camiti, mentre, da un punto di vista genetico, la partecipazione della razza rossa è rilevante in quella che, oggi, s'intende per razza bianca, ebrei compresi.* A tutto questo si deve aggiungere che, esclusi gli indù (in tutte le loro varianti confessionali e pochi buddisti), nel nostro tempo tutti gli indoeuropei stiano praticando religioni d'origine semitica (le altre eccezioni, numericamente irrilevanti, essendo i parsi - zoroastriani - dell'India ed i kafiri dell'Afganistan).
Per cercare di visualizzare in qualche modo quest'evanescente razza rossa, sembra essere la giusta strada quella di procedere alla collazione delle testimonianze che la riguardano e, nel contempo, sempre avendo presente che lo scopo è quello di riportarci alle diverse confluenze tradizionali presenti nell'ebraismo, si giudica altresì indispensabile verificare gli eventuali segni del suo riconnettersi a quel preciso filum etnico.

* Non è un caso che, nella geografia mazdaica, il "continente" (iran. keshvar) occidentale si chiami Arezai, quindi singolarmente eguale al vocabolo ebr. per terra (arez).

Incominciando da questi ultimi, si è del parere che il primo indizio sia lo stesso nome di Adamo. Intanto bisogna sottolineare come appartenga ad un processo del tutto normale dei testi tradizionali il far sì che un elemento particolare possa essere preso a prototipo di un insieme più ampio e viceversa. Per tale motivo Adamo, il quale nel Genesi rappresenta il primo uomo di quest'umanità, appare poi, da alcune peculiarità linguistiche, appartenere invece ad un ciclo secondario ed assai più recente. Infatti, il suo ruolo di primo referente della filiazione semitica (lato sensu), dalla quale è poi sorto l'ebraismo, risulta proprio dall'etimo: aâdâm, man, mankind. La radice è DM, blood, da cui adêm, be red, adumym, ruddy, red of a man; oppure ebr. ed ar. adm, tawny ovvero il fulvo dei capelli, mentre rilevante, quale accenno all'epidermide, è l'ar. adamath, skin, che in ebr. ha la più prossima assonanza con adamah, ground, land,* riproducendo così lo stesso rapporto esistente in lat. tra homo e humus con, in più, la significativa coincidenza per cui, "si l'on rapporte plus spécialement ce même nom d'Adam à la tradition de la race rouge, celle-ci est en correspondance avec la terre parmi les éléments, comme avec l'Occident parmi les points cardinaux".**

* Cfr. F. Brown, S.R. Driver, C.A. Briggs, Hebrew & English Lexicon of the Old Testament, Oxford U.P. 1951.

** Cfr. R. Guénon, Formes traditionnelles et cycles cosmiques, Gallimard, 1970.

L'occidente è la terra di Atlantide, la terra in cui la Tula,* già iperborea, venne ad identificarsi con l'isola di Ogigia posta nell'Atlantico settentrionale, ovvero nelle attuali Færöer di cui resta una traccia toponomastica nel monte Høgoyggi dell'isola di Stòra Dìmun.** Ma, per l'area semitica, all'occidente ci riconducono altri precisi riferimenti, quali l'iterativa formula del Genesi "and God saw that it was good", ovvero ky tôb, che è sempre seguita dall'altra "and evening came and then morning", nella quale è evidente la precedenza data alla sera quando - sole occidente - l'astro del giorno va verso quella terra liminare che è appunto das Abendland. Inoltre alla radice ‘RB è connesso il senso di qualcosa "qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc.; les hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur à celui des arabes, en ont dérivé ‘bry et les arabes ‘arab, par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu'on prononce ‘bry, soit qu'on prononce ‘arab, l'un ou l'outre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou-delà, ou à l'extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d'une contrée".***
Di questo privilegiamento dell'occidente una traccia palese è l'inizio del giorno al tramonto sia per l'ebraismo, sia per l'islamismo, ma anche - in certi casi pure oggi, es. la Messa vespertina prefestiva - per il cristianesimo.

* Una delle tracce del remoto, comune possesso di certe cognizioni è nel virgiliano "tibi serviat ultima Thyle" (Georg. 1.30), dove è citato quello che fu uno degli appellativi del centro spirituale primordiale. Esso, posto alla massima latitudine, aveva allo zenit la costellazione da cui traeva nome: infatti in skr. tula è la bilancia (dalla radice tul: to lift up, to raise, to determine the weight of anything by lifting it up, da cui il lt. tollo, nonché il gr. tàlanton, "[piatto della] bilancia") ed in epoca arcaica, proprio perché basculanti sul perno della Polare, erano così designate le due Orse. Soltanto in tempi successivi il nome «Libra» fu trasferito ad un asterismo zodiacale. Gli stessi tempi in cui il medesimo centro venne ad identificarsi con l'isola di Ogygia. Tra l'altro, si può così comprendere perché l'aspetto principale dell'astrologia non abbia avuto niente a che vedere con le applicazioni divinatorie, oggi divenute ossessive, ma come essa fosse intimamente connessa con i principi che reggevano la geografia sacra.

** F. Vinci; Omero nel Baltico (Ed. Palombi, 1997), opera nella quale si dimostra che lo svolgersi dell'intera epopea omerica è avvenuto nell'area baltica e nell'Atlantico settentrionale, ben prima quindi che gli achei giungessero nelle sedi storiche dove dettero origine, all'inizio del nuovo insediamento, a quella che è nota come cultura micenea.

oOo

L'età del bronzo, che è una fase prettamente nordica, trova singolari riscontri tra il rosso, il furor bellico ed il bronzo: sv. röd, rosso; acc. urudû, bronzo; acc. rûbo (cfr. lat. rubeo), ira ignea, perfetto attributo di guerrieri ribelli.* Siamo lontani dal distacco e dalla misura che distinguevano la prisca forza della razza, ben resa dai noti versi del Petrarca: "Virtù contro a furor prenderà l'armi | e fia il combatter corto, 'ché l'antico valor | negl'italici cor non è ancor morto". Nonostante la pia illusione del poeta, era giustamente questa una precisa caratteristica di Roma, dove la compostezza e l'ordine delle legioni vinceva, a dispetto degli influssi latitudinari, il disordinato slancio dei barbari. Ed altri e numerosi sono, infatti, i segni che, nell'Urbe, fanno mostra di una singolare fedeltà alle origini.

* È interessante constatare come anche in cinese il fonema hóng dia luogo ad ambiti semantici tutti significativi, in ordine alle relazioni finora indicate: rosso, rivoluzionario [accezione scontata e del tutto moderna ma, in questo contesto, non priva di senso e non solo in cinese]; arcobaleno; grande, magnifico; inondazione. Del resto lo start point della tradizione estremo orientale corrisponde quasi esattamente a quello della cronologia ebraica: -3.468 (calendario cinese) a fronte di -3.760 (calendario ebraico). Molto indicativo è anche il nome che, dato dai greci ad un importante popolo semitico, fosse quello di «fenici» (da foini/foinissa,* "roux", "fauve", "rouge sombre"), chiamati però «sidonii» dalla Bibbia (Gn. 10.15-19, 49.3). Sidôn, oggi Saydâ, era un'antica città fenicia situata sulla costa a nord di Tiro, il cui nome è formato da un prestito egizio (zy, "nave") e Dan, che è il nome di una delle tribù settentrionali d'Israele. Tutte queste associazioni dell'etnonimo con una delle componenti del popolo ebraico, da mettere in più stretta relazione coi «popoli del mare», sono abbastanza curiose; tant'è che, a conferma, 'sidonii' potrebbe essere inteso come 'danai', "quelli delle navi".

Grazie alla nota precedente, torniamo - come ci si era proposti - a 'Poseidòon', appellativo che pone qualche problema. In origine, designava il dio che presiedeva alla terra, come è confermato dall'epiteto omerico di Enosigeo. Tale attributo è attestato dalla giustapposizione uscita da un vocativo Poteida, dove sono presenti Potei (da posis, pater familias) e l'antico nome della terra Da, Das, che ritroviamo incluso nella sua controparte femminile Demeter. In seguito, analogo abbinamento di posis si verifica con l'etnonimo sidonii, presente prima nel mic. Posidaijo, poi nel classico Poseidòon, che potremmo adesso legittimamente interpretare come "Signore dei danai" o anche come "Signore dei popoli del mare". La risposta ad un interrogativo ne solleva però un altro: mentre i romani avevano una mentalità continentale, in ordine con lo spirito indoeuropeo, gli achei erano già navigatori prima di scendere nel Mediterraneo; quindi, se Posidone è nome tardivo, qual era quello del loro dio del mare?
Forse, come risposta, un aiuto può fornirlo ancora Omero (Il. 1. 265 e 403-404) con, non a caso, il nome di un gigante: Briareo. Briareo è, neppure qui a caso, l'eponimo delle atlantiche, famose 'colonne briaree', prima denominazione di quelle che poi furono intitolate ad Ercole (più tarda variante onomastica dello stesso dio). Briareo era però detto anche Aigaios (inoltre Aigai, Ege era la sede di Posidone; Od. 5. 381) ed i due appellativi, nell'area scandinava, hanno avuto un seguito norreno in Brimir e Ægir. Il primo era, come il personaggio greco, un gigante;* il secondo, il dio del mare. Ma c'è di più: Aigaios e Aigai derivano da aix, capra, cioè la chimerica, anfibia figura della capra-pesce, in cui i due elementi terra ed acqua si uniscono nel simbolo del Capricorno.

* Per tutta questa famiglia di parole vd. in skr. la radice brih (to be thick, grow great or strong, increase).

Il gigantesco Atlante era il capo dei Titani nella guerra contro Zeus. La vittoria di quest'ultimo terminò con un compromesso: anche Posidone prese posto tra gli immortali, a riflesso mitico della fusione delle due razze.