La sostituzione dell’alternativa tra vero e falso, cioè del naturale criterio di giudizio, prima con quella tra buono e cattivo (viziata già in partenza dalla possibilità, che le è inerente, di scambiare l’ottica divina, per la quale il Bene e la Verità coincidono, con quella umana) e poi con quella, oggi imperante, tra nuovo/moderno e vecchio/antico/superato, non è cosa recentissima. Una timida prefigurazione la fornì l’Egitto faraonico, una più sfacciata anticipazione la inscenò la Roma imperiale, ma la realizzazione autentica, non ancora condotta a termine, la si deve agli ultimi secoli, tra “scoperte” geografiche, “invenzioni” meccaniche e “trovate” ideologiche. In realtà, si tratta sempre e solo dell’unico peccato possibile (tutti gli altri potendovisi ricondurre): l'orgoglio.   
Dal punto di vista filosofico occidentale, l’assolutizzazione della prospettiva umana (per la quale il bene si identifica, in teoria, col bene di tutti,* in pratica, col bene di pochi) rinasce nel perciò cosiddetto «rinascimento», affermandosi sia con l’empirismo del «nihil in mente quod prius non fuerit in sensu» (che, pur negando l’intuizione intellettiva, lascia almeno un po’ di spazio al [buon] senso) che con l’idealismo del «nihil in sensu quod prius non fuerit in intellectu», formula apparentemente opposta alla precedente, ma in realtà specularmente identica, laddove con «intelletto» non si allude al dantesco “intelletto d’Amore”, bensì alla ragione. In altre parole all’anima, anziché allo spirito.
Nonostante il suo gran parlare di «spirito» (la cui iniziale maiuscola, in tedesco, è dovuta solo alle particolarità grafiche di tale lingua), difatti, Hegel equipara tutto il reale al razionale (e, per giunta, viceversa), portando a compimento i vaniloquii di Cartesio e di Kant sulle rispettive cogitazioni.** In tal modo, nel cosiddetto «primato del pensiero [di chi?] sull’essere» si palesa tutta la superbia moderna, che rapporta un non meglio precisato «spirito» prima all’«anima mundi», poi al «mondo» tout court ed infine ad una «storia» che altro non è se non la cronaca dei secoli [occidentali] più recenti.


* Tutti gli esseri umani, s’intende, ad esclusione pertanto di quelli sub e sovrumani (i primi considerati, cartesianamente, null’altro che “macchine” e, i secondi, non considerati affatto). Era prevedibile che la stessa sorte sarebbe prima o poi toccata alla maggioranza [prima, ed alla quasi totalità poi] degli stessi esseri umani.

** Vaniloquii ma, visto l'uso fattone nei secoli successivi, più che di vanità potremmo parlare di incoscienza criminale. Sostituire un'astrazione ad una realtà concreta, fisica ed individuale, significa, per esempio, morire e far morire perché "ce lo chiede l'Italia", non perché ce lo chiedono Cavour o Mussolini. Idem, adesso, perché "ce lo chiede l'Europa". Alla resa dei conti era più ingenuo, sebbene non meno criminale, morire e far morire perché "Dio lo vuole".

Inoltre, poiché si postula che la storia in questione rappresenti “il luogo unico del dispiegarsi dello spirito”, come evitare il disprezzo della staticità (prerogativa dell’essenza immutabile) e la parallela venerazione del divenire dell’esistenza, magari tirando in ballo Parmenide per la prima ed Eraclito per la seconda (punti di vista mai combattutisi,* nel loro porsi su diversi piani di lettura, rispettivamente paragonabili - nel prosaico moderno - al Sein ed al da-sein, ovvero all'Essere ed all'esser-ci, di Heidegger)?


* Punti di vista mai combattutisi, se non nei volumi di storia della filosofia, perché riferentesi quello al Creatore e questo alle creature, ovvero (per citare, nei versi successivi, non un filo-sofo, ma un sofo autentico come Campanella) quello ad una creatura e questo alle creature ivi contenute. "Il mondo è un animal grande e perfetto, | statua di Dio, ch’Il lauda et Cui simiglia. | Noi siam vermi imperfetti, vil famiglia | ch’intra ìl suo ventre abbiam vita e ricetto". Adoperando a turno il telescopio e il microscopio, la mirabile quartina precedente - sulla quale siamo tornati qui - a) si dilata fino a comprendere, nel mondo, gli innumerevoli mondi dell’intero Universo e b) si restringe fino a fare un mondo di ciascuno di noi, che ospitiamo forme di vita inferiori dalle quali ci aspettiamo, se non amore, almeno collaborazione. Per dirla con Menenio Agrippa (che, oggi, rischierebbe il linciaggio), simbiosi e non parassitismo.
A queste «intuizioni» (dal latino intuèri, che non sta per “veder dentro” ma, dal greco theòs, per “in-diarsi”, analogamente a quanto può dirsi dell’«en-tusiasmo») non si arriva né con la mente/ragione, né con un pensiero buono solo a posarsi sui clivi e sui colli, ma con la facoltà ormai dismessa dell’intelletto.

Così il mutamento viene idolatrato nel feticcio di una dialettica in evoluzione indefinita. Alla dialettica socratica, cioè, che mirava al raggiungimento della Verità insita “in interiore homine”, si sovrappone una pseudo-dialettica che trasforma incessantemente la sintesi in una nuova tesi, questa in una nuova antitesi e così via, nel parossismo del «motus in fine velocior» (o, se si preferisce, del «cupio dissolvi») dell’entropìa.*
La condanna a morte della sintesi comporta, oltre al male minimo della definitiva abdicazione del filosofo dal ruolo assegnatogli da Platone, il male massimo del nichilismo di chi, persi l’uno dopo l’altro i criterii del vero, del bello, del nobile, del buono, dell’utile e così via, sempre più in basso, finisce con l’adottare il criterio più scriteriato, quello che accetta qualsiasi farneticazione, purché «innovativa».


* La natura ferale dell’idealismo, subito utilizzata sia da Nietzsche che da Marx, viene stigmatizzata da Engels, per il quale, “secondo le regole della dialettica hegeliana, affermare la razionalità del reale significa affermare che ogni forma di esistenza merita di morire”. Morire - dovrebbe chiosare il credente - prima del tempo, ogni forma di esistenza meritando il suo destino, del quale la morte è l’inevitabile conclusione.

Al nichilismo dei giorni nostri si arriva, passando attraverso il relativismo, inizialmente accettando ed in seguito giustificando a) qualsiasi accadimento che, per il solo suo esser accaduto, doveva accadere;* b) qualsiasi novità che, per il solo suo aver sopraffatto la novità di ieri, è più «aggiornata» e c) qualsiasi vincitore che, per il solo suo aver vinto, in virtù di superiore potenza bellica/economica/tecnologica, uno sconfitto purchessia, fa di quest'ultimo il bieco passato. Come si vede, gli idoli contemporanei del progresso e dell’evoluzione, osannati al grido dell’È ORA DI CAMBIARE, sono già presenti nel concetto della perfettibilità «storicistica».

* Il che peraltro è vero, in una prospettiva teocentrica (come s'è visto qui). Ma è proprio questa la prospettiva che fa difetto all’antropocentrismo contemporaneo, che riposa su una presunzione del tutto ingiustificata. L'astuzia della ragione si riduce, in ultima istanza, a pensare che si scriva «creato» e si pronunci «ambiente».

La rivoluzione permanente, date queste premesse, assurge pertanto a condizione non più subita e [più o meno pazientemente] tollerata, ma desiderata e, ove necessario, provocata. La storia è sempre incinta - conclude Hegel - e va solo aiutata a partorire. Chi si è assunto, ieri ed oggi, l’incarico della levatrice (sfornando a getto continuo una novità dopo l’altra, per disorientare chi ormai non sa più a quale santo votarsi, né tampoco quale santo votare)? E chi se lo assumerà domani, raccogliendo i frutti dell’indefesso, plurisecolare lavoro dei suoi battistrada (ai quali ha fatto fare tabula rasa di ogni spiritualità, allo scopo infernale di proporre ed imporre una nuova spiritualità)?
Sulle 'neoplasie' s'è bofonchiato un po' anche qui.