Tempus fugit. Il tempo corre, sì, ma come un gatto che cerchi di mordersi la coda. Ciò ch'era vero ieri, oggi sembra falso. Ma tornerà ad esser vero domani, quando si rivelerà falso ciò che oggi sembra vero. Nella confusione attuale, non è relativismo etico, e neppure gnoseologico, affermare che a) COMUNQUE LA PENSI, HAI SEMPRE RAGIONE, perché ciò che vedi non è la realtà, ma la tua immagine della realtà, e che b) COMUNQUE LA PENSI, È VERO ANCHE IL CONTRARIO, perché la nostra realtà è duplice e speculare. Speculare, come un volto e la sua immagine riflessa in uno specchio, fatta cioè di opposti che si annullano solo nella coincidentia oppositorum della Realtà autentica, quella del serpente che, addentatosi la coda e fatti coincidere l'inizio e la fine, arresta il tempo. D'altra parte, l'affermazione che vuole vero anche il contrario [di quanto si pensa], portata alle estreme conseguenze, comporta l'esser vero anche il contrario dell'affermazione stessa, che perciò si ribalta nel suo opposto («comunque la pensi, non è vero anche il contrario») e così via, di opposto in opposto, in una sequenza interminabile che ricorda il paradosso di Zenone e dalla quale bisogna pur uscire.
In ogni caso, l’importante è non cadere nel relativismo, a cui s’è accennato anche qui, del «quot homines tot sententiae», relativismo antropocentrico che si traduce prima in inflazione e poi, fatalmente, in svalutazione [di ogni singola sentenza].
Tornando a quanto si diceva prima, pensar vero anche il contrario non è facile, perché le coordinate spazio-temporali a cui siamo sottomessi,* inversamente proporzionali, si escludono a vicenda: se la gioventù e la vecchiaia, ad esempio, possono coesistere spazialmente, cioè in uno stesso individuo, non lo possono temporalmente (il tempo implicando la successione, prima della gioventù e poi della vecchiaia).
* Sottomessi non interamente, però, giacché fenomeni come il pensiero (per tacer d'altro) sono totalmente svincolati sia dallo spazio che dal tempo, non sono cioè legati all'estensione nello spazio e alla successione (potendo sia incedere che retrocedere) nel tempo.
Al riguardo, non sembri superfluo precisare che la proporzionalità inversa tra lo spazio ed il tempo è in qualche modo simmetrica, entrambi derivando la loro caratteristica essenziale (rispettivamente cioè, come s'è detto, l'estensione e la durata, la quale ultima in fondo non è che un'estensione nel tempo) quello da un quid inesteso, ovvero il punto, e questo da un quid non duraturo, ovvero l'istante. Ne consegue che, come la somma di più zeri non dà una cifra diversa da zero, più punti non formano una linea e più istanti non compongono alcuna successione di istanti (una linea essendo in realtà la distanza tra due punti ed una durata potendosi meglio definire come l'intervallo tra due istanti). Ne consegue ancora che l'indivisibilità, in quanto peculiarmente qualitativa, cioè incommensurabile, pertiene solo al punto ed all'istante e non è assolutamente attribuibile ad alcun componente, per quanto minimo, le due coordinate in questione, componente la cui natura quantitativa, cioè misurabile, lo rende indefinitamente divisibile. Detto in termini numerici, questo significa che qualsiasi frazione, per quanto minima, è sempre ulteriormente riducibile, aggiungendo un'unità al denominatore, senza perciò ridursi mai a zero, cifra che, designando l'assenza di quantità,* non può essere impiegata per simboleggiare alcuna, sia pur infinitesimale, quantità.
* Come è noto, lo zero (in arabo, sifr) non è un numero. Eppure è la cifra che, posta dopo qualsiasi altro numero intero, ne decuplica il valore. Sul tema delle coordinate spazio-temporali, invece, andrebbe detto di più circa quanto può dirsi una sorta di temporalizzazione dello spazio e di spazializzazione del tempo, ovvero il movimento. Ma non è facile, come dimostra quanto scritto qui. Infine, a proposito della divisibilità indefinita di tutto ciò che è quantificabile, si pensi meno astrattamente all’inesauribile serie di divorzi coniugali e politici di qualsiasi struttura privata e pubblica che non si rifaccia ad un principio qualitativo, ovvero spirituale.
Ma sarebbero troppi, gli abusi linguistici da lamentare, e non per la loro incongruenza lessicale, ma per il loro farsi spia semantica di un solo, proteiforme peccato d'orgoglio. La stessa differenziazione tra infinito e indefinito è insoddisfacente, entrambi riferendosi ai fines (a meno che non si precisi che l'indefinito è, appunto, indefinito, ma non indefinibile, laddove l'Infinito è propriamente indefinibile). Che cosa dire, ad esempio, del verbo «essere» adoperato in vece dei più transitori (e più consoni alla nostra condizione) «esistere» o «stare»? Che cosa dire dell'aggettivo «normale» utilizzato in vece di «comune»? E che cosa dire dell'aggettivo «originale», oggi sinonimo di "estroso", "inedito", se non "bizzarro", significante in realtà l'esatto contrario, cioè "conforme alle origini" (significato conservatosi, sintomaticamente, solo nell'ambito commerciale)?